Metti i tre papilli, due amici, e una buona cena. Anzi, una cena grandiosa. Un breg di Gravner spacciato da @fiorenzosartore, lo champagne superb(ì)o di André Beaufort, una sequenza di salumi da salivazione immediata – culatello, culaccia, lardo di Arnad commovente, petto d’anatra affumicato e il salame del contadino amico – un piatto di resistenza (faraona al mandarino, presto su questi schermi se @alxricci mantiene le promesse) e ancora il dolcetto 2001 di @sanfereolo, verticale di parmigiani da 36 a 48 mesi vinta per acclamazione dal 45, e doppio piatto da portata con formaggi italo-francesi con sauternes d’ordinanza. E temo di aver dimenticato qualcosa.

Scusate se ho infranto la mia regola di non fare elenchi sboroneggianti, ma volevo ricreare l’effetto nirvana.

Perché poi la ciliegina sulla torta è stata un’altra. E cioè che satolli ci siamo spiaggiati sul divano e la puntina del giradischi ha cominciato a diffondere Echoes nell’aere. Ora, fra i papilli si contano un serio malato di Pink Floyd e un amante dei Pink Floyd, che fa coppia col generoso padrone di casa e del vinile.
La serata è dunque scivolata in una nube di cicchetti e disquisizioni se gli orologi di Time li avesse registrati Alan Parsons o Chris Thomas (a proposito: Alan Parsons) o se il wall of sound di Rick Wright rendesse meglio in Meddle o The dark side of the moon. Puro sollucchero.
E fu sera e fu mattina.

Certo, non è necessario amare i Pink Floyd per godere fisicamente della musica: ognuno di noi ha le sue preferenze, noi abbiamo questa, ma il discorso è un altro. È che il binomio cibo-musica andrebbe esplorato meglio e di più. Non dico nulla di nuovo, c’è gente bravissima che lo ha già detto e fatto, come Enofaber o Stefano Caffarri.

D’altronde se la musica è sempre stata legata al sesso e il cibo pure, vuol dire che come minimo sono parenti.