Evisa, aspra montagna di Corsica. Uno di quei posti che ti chiedi come possa ancora essere abitato: la statale si stacca da Francardo, lungo l’asse Bastia-Corte e si inerpica per 57 chilometri di curve assassine e paesaggi mozzafiato. La Scala di Santa Regina – pareti di roccia a picco e strada che se scende una macchina devi piegare lo specchietto – il lago di Calacuccia – dove dopo venti chilometri puoi mettere finalmente la terza – la foresta di Valdu Niellu, il Col de Vergio: 1477 metri d’altezza, stretto fra il Monte Cinto e il Paglia Orba, l’asfalto devastato dalle ghiacciate invernali.
Altri dieci chilometri di placida discesa fra gli altissimi abeti della Foresta di Aitone e il panorama si apre su Evisa: due quinte verdi, il paesino appisolato e dietro il cobalto del mare, laggiù. Mare che comunque dista altri 24 chilometri di curve ancora più assassine, disseminate di maiali bradi, che finiscono a Porto: cioè tre case d’inverno e trenta residence d’estate, a loro volta a un’ora di macchina da un centro abitato degno di questo nome. Portu, Portu, petricaghje senza un ortu, dicono i corsi: pietraie senza un orto.
Questo per dire che davvero uno si chiede: ma la gente, a Evisa, come fa a viverci? E dove fanno la spesa?
La risposta alla seconda domanda è semplice: non comprano il cibo al supermercato. E qui viene il bello. A Evisa ci sono capitato sul ritorno dalle vacanze, cenetta al Caffe di a Posta, il bar della posta, che ci aveva attirato l’occhio. Un bel terrazzino sulla valle, una dozzina di coperti, un cucinino di due metri scarsi, il solito menù a prezzo fisso. A dividersi fra tavoli e cucina una giovane coppia, lei premurosa, lui sospettoso corso di montagna, di quelli che devi grattargli via lo strato di scorbuticità per farti trattare bene.
Ci arrivano una specie di crêpe spesse di farina di castagne col brocciu salato, frittate di verdure e erbe aromatiche, cinghiale in umido con le castagne, dessert ancora a base di brocciu (fiadone e brocciu col miele). Tutto eccezionale nella sua semplicità, con prodotti freschissimi.
Il giorno dopo torniamo per il caffè e per i complimenti, e scopriamo che accanto hanno un piccolo antro dei tesori. Ci accompagna il marito, col tipico scazzo da corso (ma abituati ai commercianti genovesi la cosa non ci sfiora minimamente). Sulla parete un cartello avverte: “prodotti artigianali, fabbricati (!) a Evisa“.
Il colpo d’occhio ricorda la cantina del nonno, qui non ci sono faretti fighetti e cartellini scritti in bella calligrafia. Appesi alla parete i salami più storti e meno esteticamente riusciti che abbia mai visto, una sequenza infinita e disordinata di mieli, terrines casilinghe (manco a dirlo a base di cinghiale), l’immancabile farina di castagne (eccelsa). Tutto prodotto da un qualche Ceccaldi, perché qui a Evisa quasi tutti si chiamano Ceccaldi. “Questo la fa mio cugino, questo anche ma è un altro cugino, questo lo facciamo io e mia moglie”… La bottega del chilometro zero. C’è qualche concessione alle tipicità industriali, ma giacciono poco pubblicizzate in un angolo, come se i Ceccaldi se ne vergognassero quasi.
Ce ne sono tante di botteguccie così in Corsica. Molte sono trappole per turisti, qualcuna no: questa dei Ceccaldi è veracemente, pervicacemente e isolatamente corsa.
Probabilmente non passerete mai da Evisa, ma nel caso segnatevi questo indirizzo. Ci ringrazierete.