All’interno del dibattito su come uscire dalla crisi troviamo anche la sharing economy, un approccio economico che promuove nuove forme di consumo consapevole basate su riuso e accesso (a beni, servizi). Sotto questa definizione ricadono anche pratiche di condivisione, scambio e collaborazione molto diverse tra loro.
Per cui se per cercare i compagni di calcetto usi Fubles, per muoverti Blablacar, per lavorare hai cercato uno spazio di coworking e per le vacanze stai valutando quale appartamento affittare su Airbnb, non puoi esimerti dal provare anche il social eating.
L’ultima tendenza è infatti andare a cena a casa di qualcuno, non necessariamente un tuo amico. Tutto ciò è avvenuto sull’onda dei secret restaurant, ovvero persone che organizzavano a casa propria una cena aperta anche a sconosciuti (ne avevamo parlato anni fa, qui su papille).
Grazie all’utilizzo dei social media si accede a questo nuovo modello di consumo: lo chef provvede a postare su una delle piattaforme nate per il social eating il suo menu, con descrizione delle proposte culinarie, dei vini, dell’ambiente in cui ti troverai e il costo di tutta la faccenda. A te tocca invece il ruolo dell’invitato che deve orientarsi tra le varie proposte.
Dopo aver scelto la tipologia di cena, non ti resta che iscriverti attraverso un portale o via e-mail e pochi giorni prima della serata riceverai una conferma con l’indirizzo. Se vi trovate a Milano tentate di accaparrarvi un posto da Ma’ hidden Kitchens Supper Club: ricordate che non servono alcolici e quindi dovrete portarveli da casa, per cui BYOB! (bring your own booze o bring your own bottle). Se preferisci accedere a piattaforme più strutturate potresti visitare Gnammo, Vizeat, Newgusto, oppure Ploonge, quest’ultimo per una esperienza in location alternative all’appartamento, come ad esempio una galleria d’arte; se cerchi un pasto low cost prova con Peoplecooks, dedicato a piatti semplici e a costi decisamente contenuti.
L’impressione è che questo tipo di attività non soppianterà l’economia tradizionale, ma probabilmente sarà ad essa complementare come dimostrano Letslunch o Mybusymeal, vere piattaforme per fare business. Ho intervistato a questo proposito Marco Giarratana, blogger de L’uomo senza tonno nonché “chef per una sera” grazie a Gnammo.
La tua è stata la prima volta su Gnammo: come funziona? Avevi già utilizzato uno strumento simile?
«Sono iscritto a Gnammo da quasi un anno, ma non lo avevo utilizzato prima d’ora: è nato tutto in un pomeriggio, ho creato il menu, scritto l’annuncio e l’ho inserito sul sito in attesa che venisse approvato. Su Gnammo è possibile esprimere un giudizio sia su chi cucina che sui commensali. Due criteri di valutazione sugli ospiti sono educazione e convivialità. Quindi, è implicito che la buona educazione e una propensione all’eloquio siano fondamentali. Uno dei moventi di una cena “social” è entrare in contatto con persone diverse, accedere alle loro esperienze e abitudini. Ho una forte “curiosità sociale”, mi piace ampliare costantemente le mie conoscenze, per cui ero a mio agio. Ho promosso l’evento sui miei canali social, con particolare attenzione a Facebook e a Instagram, creando due annunci adeguati ai rispettivi stili comunicativi»
Com’è andata la tua cena, chi erano i tuoi ospiti?
«Due prenotati attraverso Gnammo e un follower di Facebook: altri due stavano per seguirlo, ma la cena era per 4 persone ed avevo esaurito i posti. Sono stati a casa mia Agata e Cesare, una coppia, e Francesco, tutti e tre miei coetanei, cioè intorno ai 30 anni. La serata è stata piacevolissima, giunti puntuali abbiamo mangiato e conversato su temi diversi, soprattutto delle esperienze all’estero di Francesco e di alcuni esperimenti culinari che Cesare ha cucinato per Agata. Mi hanno chiesto alcune delucidazioni sui piatti, come ad esempio il risotto con cappesante, taleggio e lime e dei calamari ripieni al forno e si è instaurato immediatamente un bel clima. Come esordio niente male»
Parliamo di menu: c’è qualche standard da rispettare?
«Il menu è a “mano libera” sia per numero di portate che per l’eventuale tema da seguire. Mi sono documentato leggendo diversi annunci prima di creare il mio: il menu era un po’ complesso (e wannabe-fighetto), quattro portate (antipasto, primo, secondo e dessert – quest’ultimo, ci tengo a precisarlo, non preparato da me ma da mio zio che è un asso nella pasticceria) in cui ho unito pesce e formaggi. Volevo rischiare. A ogni piatto ho abbinato un vino diverso, stappando le bottiglie davanti ai commensali»
“Per ogni libro una ricetta, per ogni ricetta un palato da soddisfare”, questa la descrizione della tua rubrica “Letto e mangiato” su Finzioni Magazine in cui ogni ricetta nasce da una tua interpretazione letteraria. Da che libro ti sei fatto ispirare per organizzare la tua cena social?
«In verità non c’è stato un libro specifico che mi ha dato la spinta definitiva, quanto la voglia di mettermi in gioco con emeriti sconosciuti. Di certo la Cena di Trimalcione del Satirycon e alcuni passaggi della Fisiologia del Gusto di Brillat-Savarin mi avevano già instillato l’idea, ma è partito tutto dalla mia necessità di far provare ricette che di solito cucino da solo per il mio blog a qualcuno con cui non avessi alcun legame affettivo. Non sapevo chi sarebbe arrivato a tavola e quali abitudini avesse, l’unica cosa certa era che stavano pagando per mangiare qualcosa preparata da me. Avendo lavorato per più di 10 anni come cameriere so che se una persona che spende per mangiare esige molto di più che in qualsiasi altra situazione»
Social eating, per te che cosa significa? Potrebbe diventare il tuo lavoro alternativo?
«Mangiare è già social di per sé. Credo che si stia diffondendo in questo periodo come risposta alla grande illusione di comunione promessa dai social network, una sorta di contro-altare al mangiar da soli con una mano che impugna la forchetta e l’altra sullo smartphone. Ammetto di non aver ragionato molto sul food-cost: sono quasi andato a pari, ho “guadagnato” una decina di euro. In realtà non avevo l’obiettivo di guadagnare, quando ho postato l’annuncio: volevo sperimentare una cosa nuova. Il social eating dovrebbe promuovere la convivialità ai tempi della crisi, penso che non sia corretto proporre un menù da 50 € a persona (in alcuni annunci c’è chi chiede di portare il vino ai commensali, una cosa che trovo davvero scorretta: il prezzo di una cena a casa dev’essere all-inclusive, per quel che mi riguarda). Trovo il social eating stimolante sia per chi ama cucinare e mangiare sia per chi da al cibo un significato altro e alto. Non so se un giorno diventerà la mia professione, non mi sento uno chef ma “uno a cui piace raccontare, con la scrittura, ciò che cucina”, un narratore di storie di fornelli vissute in prima persona. Mi piacerebbe di più continuare su questa strada, ma chissà, non escludo mai nulla»