Il mondo del vino vive di grandi mode, e il Dolcetto di Ovada, oggi Ovada Docg, non si può certo dire che sia un vino particolarmente à la page.
Piuttosto, è un vitigno (troppo) poco considerato, che ancora in qualche caso porta in confusione per l’ambiguità del suo nome (è dolce? No, non è dolce), al quale si riconoscono buoni tannini, ma un’acidità limitata che lo derubrica a “vino da bere giovane”. E a buon peso, aggiungiamo che storicamente – noi genovesi – lo conosciamo come il vino sfuso a poche lire che arrivava da oltre il Turchino.
Ma è proprio così? Per sfidare queste convinzioni, il Consorzio Ovada Docg ha organizzato una degustazione di Dolcetto d’antan. E se questa è una situazione che in altre regioni vinicole è quasi una routine, da queste parti è stata vissuta come un vero evento. E a ragione, perché assaggiare un Dolcetto di 30 anni non capita molto spesso.
Il risultato? Una sorpresa. I vini ci hanno fatto conoscere un territorio sapientemente diviso tra riva destra e riva sinistra dell’Orba di bordolese memoria, oppure – per chi preferisce – suddivisione tra terre bianche e terre rosse. Alla fine – italico vizio – necessitiamo di parteggiare tra guelfi e ghibellini, passando per Peppone e Don Camillo: abbiamo un intimo bisogno di dividere il mondo in due fazioni contrapposte, salvo poi renderci conto che il confine potrebbe non essere così nitido e delineato.
Nel bicchiere i vini con parecchi inverni alle spalle hanno sorpreso per una buona (a volte ottima) longevità. Caratteristica, questa, propria dei Dolcetto di Ovada, che deve in primis ai suoi terreni: alcune aree dell’Ovadese si chiamano marne serravalliane, proprio le stesse che tornano in superficie esattamente a Barolo, il che spiega bene la potenzialità di questa terra.
Certo, con gli anni (e vinificazioni più moderne in legno piccolo) le note consuete di viola appassita (e il frutto pronunciato) peculiari del dolcetto tendono a scomparire, per lasciare spazio a vini più eleganti e austeri. E se alla cieca il vitigno probabilmente verrebbe ceffato, di certo portano con sé un’impronta piemontese (diremmo, sabauda) riconoscibilissima, caratterizzata anche da una mineralità importante.
Dell’insieme dei vini assaggiati, il primo da dover elencare – non solo per la firma – è quello di Pino Ratto – colui che davvero ha dato un’anima a questo terroir e che per primo ha cominciato ad imbottigliare i suoi vini, andando contro la necessità dello sfuso, come ha ricordato il suo amico e collaboratore Carlo Ricagni. Abbiamo assaggiato un 1993 Olive (la 7223 delle 7500 bottiglie prodotte quell’anno…) assolutamente emozionante, ancora con le parti dure in bella evidenza, a ricordare anche il carattere del suo produttore ormai scomparso. Un vino affinato in barriques usate, ottenuto da uve molto mature (come era prassi per Pino Ratto), spettacolare per eleganza e profondità, e per note minerali, balsamiche e di goudron intense e persistenti.
Notevole anche il campione di Cascina Boccia, molto più recente (2007). Siamo a Tagliolo Monferrato. Qui una giovane coppia che ha scelto di vivere in mezzo alla natura, e che coltiva un solo un ettaro e mezzo contornato da altri seminativi, qualche cane, due bimbi e alcuni cavalli. È una azienda vecchio stile, e vecchi sono i vigneti, di 90 anni, e scusate se è poco. Nel bicchiere, un dolcetto dallo stile classico, affinato in cemento: meno muscolatura, tannini meno gestiti ma sorbevolissimi, e quella nota di viola che nonostante gli anni in bottiglia non si è assottigliata. Un inchino!
Il Dolcetto di Roberto Ghio, annata 1998, nasce invece a Bosio, da terreni più elevati, bianchi e molto magri, e che quindi marcano il vino in maniera poderosa (eccole, le marne serravalliane). La struttura del prodotto ne beneficia. Al naso spicca una bella complessità (di frutta passita, note eteree quasi da nebbiolo), confermata all’assaggio, di lunga persistenza, con un finale leggermente amaricante.
Il vino più anziano assaggiato in degustazione, lo ha presentato un viticoltore giovanissimo, Federico Pesce, leva 1988: quando il vino è stato fatto – dal nonno – lui non era ancora nato, dato che è del 1985. Siamo a Silvano d’Orba, sulla sponda destra. Un vino ormai maturo (il colore però stupisce, ancora vivo), con lievi note di un goudron di piemontesissimo stile, una sensazione territoriale che definiremmo “terrosa”. In bocca, nonostante gli anni, ancora acidità, e una bella mineralità, a conferma delle potenzialità di questo vitigno nel territorio d’Ovada.
post scriptum 1: al plauso al Consorzio Ovada Docg, ne aggiungiamo uno in particolare a Tomaso Armento, vera anima del territorio (forse più motore), che crede fortissimamente in questo vino e nell’attività del Consorzio.
post scriptum 2: lode anche a Giuseppe Martelli, altro istrione ovadese, che ha aperto le porte del suo “Quartino diVino”, regalandoci tutta la bellezza della sua cantina e degli agnolotti al plin impeccabili.
Per approfondire
• i 22 comuni dell’Ovadese eletti a poter coltivare la DOCG:
Ovada, Belforte M.to, Bosio, Capriata d’Orba, Carpeneto, Casaleggio Boiro, Cassinelle, Castelletto d’Orba, Cremolino, Lerma, Molare, Montaldeo, Montaldo Bormida, Mornese, Morsasco, Parodi Ligure, Prasco, Rocca Grimalda, San Cristoforo, Silvano d’Orba, Tagliolo M.to, Trisobbio
• i vini assaggiati:
Comune di Rocca Grimalda, La Piria, vendemmia 2010
Comune di Rocca Grimalda, Facchino, vendemmia 2009
Comune di Tagliolo M.to, Cascina Boccia, vendemmia 2007
Comune di Montaldo, Ca del Bric, vendemmia 2007
Comune di Cremolino, Casa Wallace, vendemmia 2006
Comune di Molare, La Ghera, vendemmia 2004
Capriata d’Orba, Cascina Gentile, vendemmia 2003
Comune di Ovada, Valmosé, vendemmia 1999
Comune di Morsasco, La Guardia, vendemmia 1999
Comune di Bosio, Ghio, vendemmia 1998
Comune di Ovada, Castello di Grillano, 1996
Comune di Ovada, Pino Ratto, vendemmia 1993
Comune di Carpeneto, Bisio Giancarlo, vendemmia 1990
Comune di Silvano d’Orba, Pesce, vendemmia 1985