È una delle prime domeniche veramente autunnali. Tempo luvego, camini già accesi. Quelle giornate di mezzo in cui fai il barbecue ma mangi in casa con la stufa che tira (più per uno di quei riti che fanno ‘focolare’ che per necessità). Si mangia, si assaggiano bottiglie perse in cantina e ritrovate dopo trent’anni. Dalle nostre cantine non rischia di riemergere un Barolo del ’65, al massimo una barbera del nonno. Ma il gusto della scoperta è uguale.
Si parla del più e del meno, di quei campi che passati di mano in mano con una parola oggi è un casino capire di chi siano, ci si incazza con i politici e i ladri di ogni stirpe. Normale amministrazione, insomma. Alla fine si cerca di ricostruire un improbabile albero genealogico – lo sport preferito arrivati al dolce – “lo zio di tale era il cugino del fratello di tizio che aveva una sorella imparentata col tuo bisnonno”, finché al secondo amaro ci si arrende.
Vedo un libro vecchio, molto vecchio, rilegato, decrepito. Apro le pagine che si staccano a guardarle. “Questo tuo nonno l’ha consumato”, dice mia madre. È il famoso Artusi La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, edizione 1953. Ci sono pagine letteralmente in brandelli: “quella ricetta gli piaceva da matti”. Spaghetti ai piselli.
Lo sfoglio e penso all’ironia di quella parola “scienza” nel titolo, rispetto a come la concepiamo oggi. Penso che questo libro ancor prima che uno strumento per far da mangiare sia una specie di romanzo sfizioso da leggere, dove le acciughe sono un “pesce dalla pelle turchiniccia”, dove per spiegare come si fanno le patate sautè si inizia con “”ciò vuol dire, in buono italiano, patate rosolate nel burro”, dove gli antipasti sono “principii”. E dove si trovano vere e proprie storie che con le dosi hanno poco a che fare, ma tanto con la vita. Come quella del minestrone, che riporto.
Il minestrone mi richiama alla memoria un anno di pubbliche angoscie e un caso mio singolare.
Mi trovavo a Livorno al tempo delle bagnature l’anno di grazia 1855, e il colera che serpeggiava qua e là in qualche provincia d’Italia, teneva ognuno in timore di un’invasione generale che poi non si fece aspettare a lungo. Un sabato sera entro in una trattoria e dimando: – Che c’è di minestra? – Il minestrone, – mi fu risposto. – Ben venga il minestrone, – diss’io. Pranzai e, fatta una passeggiata, me ne andai a dormire. Avevo preso alloggio in Piazza del Voltone in una palazzina tutta bianca e nuovissima tenuta da un certo Domenici; ma la notte cominciai a sentirmi una rivoluzione in corpo da fare spavento; laonde passeggiate continue a quel gabinetto che più propriamente in Italia si dovrebbe chiamar luogo scomodo e non luogo comodo. – Maledetto minestrone, non mi buscheri più! – andavo spesso esclamando pieno di mal animo contro di lui che era forse del tutto innocente e senza colpa veruna.
Fatto giorno e sentendomi estenuato, presi la corsa del primo treno e scappai a Firenze ove mi sentii subito riavere. Il lunedì giunge la triste notizia che il colera è scoppiato a Livorno e per primo n’è stato colpito a morte il Domenici. – Altro che minestrone! – Dopo tre prove, perfezionandolo sempre, ecco come lo avrei composto a gusto mio.
Segue la ricetta, ma fatelo come vi pare, con quello che avete, che va bene. Lo dice anche Pellegrino Artusi: padronissimi di modificarlo a modo vostro a seconda del gusto d’ogni paese e degli ortaggi che vi si trovano.
Se volete informarvi sull’Artusi
http://www.pellegrinoartusi.it/