La leggenda dell’Oca polacca

da | Gen 2, 2018

Kowalski, Lunedì 28 Dicembre 2015. Ore 21.00 Circa. Interno Notte.

Il locale, come fortunatamente accade sotto le feste comandate, era gonfio di gente. Tutti i tavoli risultavano occupati e si respirava un clima disteso fra i vari avventori placidamente accomodati l’uno sull’altro, mentre noi addetti al servizio, al solito, correvamo la nostra personale maratona di cordialità e bestemmie soffuse.

Ad un tratto, lo squillo del telefono arrivò ad interrompere la routine e casualmente (o forse no) rispose Kaja.
Kaja, per chi non lo sapesse, è la mia socia polacca: un meraviglioso incrocio fra la bionda dei vostri sogni, Thor e un generale dell’esercito prussiano.

Mentre si svolgeva il colloquio con l’altro capo della linea il suo viso andava componendosi sempre più a forma di punto interrogativo, man mano che la conversazione procedeva verso i binari della commedia. L’interlocutrice era la concierge del rinomato albergo Savoy, uno dei due cinque stelle presenti a Genova. Per non essere eccessivamente prolissi, vi riassumo che la gentile signorina chiese per conto di un facoltoso cliente se sarebbe stato possibile cucinare per la sera successiva la celeberrima “Oca alla Polacca” (piatto mai assaggiato in oltre dieci anni di frequentazione della cucina di mia moglie Agnieszka, la cuoca del Kowalski).
Kaja, rammaricata, rispose che trattasi di un piatto che non facciamo mai e che comunque la scarsa reperibilità dell’animale avrebbe reso praticamente impossibile confezionare la portata con così poco preavviso. La concierge, evidentemente stressata dal misterioso cliente, provò ad insistere ancora con qualche supplica accennata senza pudore alcuno. Al sesto o settimo rifiuto ricevuto, finalmente si arrese chiudendo con un breve e malinconico saluto la conversazione.

Sbalorditi e con il sorriso per i matti in bella vista sotto il naso, tornammo quindi alla nostra battaglia di piatti e spine, archiviando all’istante il curioso evento.

 

Kowalski, Lunedì 28 Dicembre 2015. Ore 21.15 Circa. Interno Notte.

Il locale permaneva imballato di gente come nella precedente descrizione quando, stavolta dando la sensazione di urgenza e necessità già dal trillo, giunse al nostro telefono una nuova chiamata.
Alla risposta andò sempre Kaja la quale, oltre ad essere una bravissima barwoman e una perfetta caposala, parla fluentemente sei lingue (tutte ad una velocità di pronuncia quasi inafferrabile dal cervello umano). Questa precisazione è doverosa dal momento che, dopo la risposta e il primo dialogo in italiano, la conversazione vira in inglese.

In pratica, l’ormai famoso cliente aveva ordinato di poter parlare lui stesso con il ristorante in modo da imporre la sua volontà. Dopo il saluto di prammatica, ribadì la sua richiesta in prima persona un paio di volte, fino ad esigere che si chiedesse in cucina la reale fattibilità dell’impresa.
Kaja, stanca e succube del suo amore per le lingue straniere, decise di accontentare il suo misterioso interlocutore rischiando la vita e andando nel cuore pulsante del Kowalski dove mia moglie – incinta di quattro mesi – si stava smazzando quella salutare quarantina di coperti, standard quotidiano del periodo festivo. La risposta, però, non arrivò positiva e si manifestò tramite uno sguardo carico di furia omicida e volgarità pesantissime che fortunatamente non trovarono voce per essere espresse.
Con le pive nel sacco Kaja tornò dunque al cellulare per comunicare la definitiva risposta al mister in attesa.

Solo allora, finalmente, arrivò la possibilità di entrare tutti insieme nella leggenda.
La memoria mi ricorda che il punto messo allora a segno dalla parte del Savoy fu più o meno questo: non esiste un prezzo che non si possa pagare per ottenere ciò che si vuole, “ti faccio un esempio: io domani mangerò quell’oca e se vi devo dare le chiavi della mia Jaguar per ottenerla… beh, non ci penserò due volte…”.

A questo punto della storia è bene che sappiate che l’intera conversazione veniva seguita in tempo reale da chi ora sta scrivendo queste righe bizzarre e che alcune fra le risposte erano riportate in presa diretta alle mie incredule orecchie. Fino a quel momento, infatti, la strategia era stata condivisa: “col picchio che ci mettiamo a realizzare un piatto complicato per reperibilità e cottura sotto le feste!”.
Però, dopo quella frase smargiassa e carica dei più aggressivi significati capitalistici, la nostra attenzione mutò repentinamente.

Il garrulo interlocutore, che dalla sua evidente ricchezza traeva il conforto delle parole e la certezza di aver colpito nel segno, sottolineò quindi che l’indomani avrebbe mangiato la sua oca come gli era capitato con le identiche modalità in quasi tutte le parti del mondo. La sua antica tradizione di immigrato (di seconda generazione) dalla Polonia negli States non si sarebbe di certo interrotta in Italia, a Genova, e per lo più con la fortunata coincidenza di scovare un vero locale polacco.

Il prezzo, qualunque venisse da noi fissato, non avrebbe dato il benché minimo pensiero agli ordinanti. I soldi servono a comprare i desideri, così disse l’anziana ma arzilla voce dall’altra parte del telefono poco prima di accomiatarsi.

Ecco, lo so che è brutto vendersi per il vil denaro. Lo so che è un insegnamento pessimo da dare. Lo sappiamo tutti, veramente, che i soldi NON comprano la felicità.
Però quella sera noi avevamo risposto alla chiamata e noi, fragorosamente, cedemmo. Le tasche erano le nostre, come il rischio della sòla o di non riuscire nel compito. Avevamo deciso di raccogliere la sfida sia per la sfacciataggine del nostro cliente ma pure per la volontà di venire a capo dell’impresa. In fondo, si trattava solo di un piatto!

 

Kowalski. Martedì 29 Dicembre. Interno notte. Ore 21.

Le prime due sale del Kowalski erano gremite di gente che la sera prima aveva assistito da lontano alla telefonata: clienti storici o amici che per nulla al mondo si sarebbero persi l’epilogo della storia dal vivo.

L’orario della prenotazione era però già tragicamente passato da un quarto d’ora abbondante e i primi sintomi di nervosismo stavano iniziando ad affiorare in tutti gli astanti.
D’altra parte, l’intera giornata era stata una corsa prima per recuperare tutti gli ingredienti della pietanza (a partire dall’ingombrante palmipede) e poi per acciuffare l’esatta tempistica di preparazione del complesso piatto.

Qualche minuto dopo, grazie agli dei della ristorazione, si fermò a pochi metri dalla porta d’ingresso del Kowalski un taxi: dalla porta posteriore scesero, non senza qualche evidente difficoltà, quelli che si sarebbero rivelati i nostri ormai famosi clienti. Barcollavano vistosamente e pericolosamente ma questo non risultava per nulla strano dal momento che erano in tutto e per tutto ubriachi.

Sbronzi, felici e contenti, identificarono subito Kaja come loro interlocutrice prediletta sia perché avevano parlato telefonicamente con lei sia perché il suo inglese, come già accennato, risulta impeccabile. Io rimasi in disparte e questo fu un bene, perché Kaja è sempre stata in grado di sapere tutte le informazioni notevoli della vita della persona con cui sta parlando nei primi cinque minuti di dialogo. Probabilmente in una vita passata conduceva interrogatori per la Stasi.
Venimmo quindi a sapere che i due sprintosi anziani erano una coppia newyorchese, entrambi nel ramo delle commissioni per l’edilizia pubblica (!). L’uomo con cui avevamo parlato al telefono sembrava la copia esatta dell’attore anni ottanta Dudley Moore (giusto come riferimento visivo: lo so che nessuno se lo ricorda più…) vestito di rosa e bianco e con al collo una croce tempestata di preziosi che probabilmente valeva quanto due Kowalski. L’altro, sempre sorridente ma molto più silenzioso, sembrava uscito da una vecchia pellicola di Woody Allen.

Si sedettero al tavolo assegnato e ovviamente ordinarono all’istante due vodkatini per rimanere agevolmente in pista, seguiti dalla bottiglia di vino più costosa del locale.

A tempo debito e non senza qualche sudore freddo, arrivammo dunque a servire con tutte le riverenze il piatto principale, la gloriosa Oca alla Polacca: 4 chilogrammi di bestia che praticamente venne tutta divorata nell’arco delle successive due ore, fra un goccio di vino ed altri vodka martini ordinati senza soluzione di continuità.

La cena sembrava quindi andarsi a concludere sui binari della tranquillità abbinata ad un furioso alcolismo quando, all’approssimarsi dei saluti e del conto, l’uomo con la croce preziosa passò davanti al nostro bancone con passo svelto e stranamente diritto, uscendo da solo nella notte di via dei Giustiniani. Subito tutti avevamo pensato ad una fuga per non pagare, ma la paura perse immediatamente sostanza dal momento che il suo compagno era rimasto placidamente seduto al tavolo, mentre noi, con lo sguardo a metà strada fra lo schifo e lo shock, vedevamo la sagoma del nostro ospite vomitare anche le unghie dei piedi nel tombino poco distante dall’ingresso del locale.

Finito lo show, l’uomo si accese una salutare sigaretta propiziatoria al coma quando nei suoi occhi vedemmo dipingersi l’orrore. Si seppe poco dopo e grazie al solito lavoro di intelligence di Kaja che, durante l’espulsione violenta di poco prima, era stato eiettato anche l’ultimo impianto ortodontistico approntatogli del valore di circa 40.000 euro.
Non nego oggi che a molti di quelli ai quali giunse questa notizia balenò l’idea di un tentativo di recupero e anzi qualcuno, nottetempo, probabilmente ci provò anche: che ebbe o meno successo a questa narrazione non è dato saperlo.
Canta la leggenda che, dopo lo scoramento iniziale, il nostro ormai mitologico cliente disse: “meglio, così ora ho lo spazio dove incastrare il bocchino”. Qui, però, sconfiniamo nelle radici del mito e quindi oltre la pura cronaca.

Tornando dunque alla nostra storia vera, non posso che correre quindi al fatidico momento del conto. Poco prima dell’arrivo del taxi, si avvicinò a Kaja, nei pressi del bancone, il tipo più silenzioso chiedendo a quanto ammontasse la sciocchezza.
Qui, e mi prendo io i meriti del coup de théâtre, avevamo già pronta la risposta. A costo di perderci, rispondemmo da spacconi: il conto sarebbe stato deciso da lor signori e non da noi.

L’uomo, piacevolmente colpito, sorrise leggermente e mise la mano destra nella tasca interna della sua giacca firmata. Con una gestualità molto teatrale allungò quindi a Kaja la bellezza di 340 euro in contanti. Lei allora si girò verso di me con un misto di imbarazzo e incredulità ed in cerca di conferme ripeté a me la cifra: io capii ingenuamente 140 ed entusiasta tirai su il pollice per chiudere la trattativa. Ricevuto lo scontrino, a coronamento dell’assurdo, tirò fuori dal taschino la mancia finale di 50 euro, tutti per noi. Poi salì, con una clamorosa zuccata ad incrinare il montante della portiera, sul sedile posteriore del taxi in attesa dove giaceva il ricordo del suo compagno ormai perso nei meandri della sbornia.
E con questa immagine negli occhi e nel cuore li perdemmo per sempre lungo il buio dei carruggi genovesi.

Ora, a conclusione di questo racconto, non so onestamente dire a nessuno se il denaro possa realmente comprare la felicità: non ne avrò mai abbastanza per dirlo. Di certo, posso ora affermare che può comprare un abbondante piatto di Oca alla Polacca. Anche sotto le feste.

Autore

Pierpaolo Cozzolino

Oste dell'est e agitatore delle notti genovesi. Incidentalmente deejay e padre. Onnisciente di vodka, con segrete grandi passioni per il cinema e meno segrete per il calcio che non c'è più - e pure per quello che c'è ancora

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