Due nuove birre Guinness

da | Nov 12, 2015

Una cosa mi ero sempre chiesto: ma noi birrofighetti o birrostronzetti che beviamo solo birra artigianale, come ci comportiamo con quei veri e propri miti del mondo brassicolo, giganti produttivi industrialissimi che però hanno scritto la storia, come ad esempio Pilsner Urquell o Guinness?

La domanda restava silente e senza risposta mentre il team papillo si dirigeva verso Milano, la metropoli verso cui noi genovesi nutriamo un mix molto ligure di invidia e disprezzo. In uno spazio bellissimo, post-industriale (invidia), raggiunto dopo aver fatto un’ora di coda in tangenziale (disprezzo), Guinness presentava due nuove birre, due porter: la Dublin porter e la West Indies porter.

guinness_5Due nuove birre marchiate Guinness! Una notizia, senza dubbio. Certo, il gruppo Guinness produce anche altre birre oltre alla classica stout che tutti conosciamo, ma sotto marchi diversi (Harp, Kilkenny, eccetera). Di Guinness che non fossero “la Guinness” non ce n’erano fino a poco tempo fa, con l’esclusione della Guinness Export, tuttavia semplice versione più alcolica della scura tradizionale.
Cui prodest? Probabilmente un qualche CEO si dev’essere svegliato una mattina urlando “diversificazione!”, chissà. Avranno fatto i loro conti, questo è certo. C’è da dire che Diageo fa le cose con una certa classe: le due birre nuove (più una terza in rampa di lancio, una Golden Ale) sono frutto di un intero progetto – The Brewers project, si chiama – che prevede di lasciare briglia sciolta ai birrai e dargli le chiavi di un piccolo birrificio interno dove appunto sperimentare nuove birre. Se vi sembra che tutto ciò strizzi l’occhiolino al mercato dell’artigianale, direi che avete azzeccato. Però, come abbiamo detto, con classe.

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Per questi due nuovi prodotti, Guinness, che se lo può permettere, ha puntato molto sulla propria storia: le ricette vengono dal sacro libro di Arthur Guinness in persona, e sono rispettivamente del 1801 (West Indies Porter) e del 1796 (la Dublin). Uno dei momenti clou della serata è stato proprio il disvelamento del librone delle ricette del fondatore della Guinness, portato da Dublino dalla capo-archivista in guanti bianchi, e gelosamente custodito con il totale divieto di fotografarlo.

Anche il packaging – obiettivamente bellissimo – è storico. Sbàm, altro librone impolverato aperto sul tavolo: è l’incredibile collezione delle etichette ottocentesche, un reperto per cui conosco gente che commissionerebbe un omicidio. Guinness, come tutti i birrifici dell’epoca, dava infatti facoltà ai pub di imbottigliare la birra, e ogni pub si disegnava la propria. Da perderci le bave. E talmente super-hipster che ho visto un paio di invitati correre fuori urlando per buttarsi nei navigli.

guinness_3Tutto trasuda storia, certamente per marketing, ma altrettanto certamente perché è davvero così. Ascolti Will Keating, uno dei responsabili del controllo qualità del prodotto, che ti fa il pippotto, ma che te lo fa bevendosi una birra e bevendosela con piacere. Vedi che gli scintilla l’occhio di gioia quando il perfido Stefano Ricci gli fa una domanda ultratecnica. Scopri cose che non sapevi: che Guinness usa esclusivamente orzo irlandese, da fornitori che sono gli stessi da un secolo; che è l’unico birrificio che se lo tosta da sé; ricevi la conferma che sì, ci sono 50 birrifici sparsi per il mondo, ma che Europa e Nord America sono serviti esclusivamente da quello in St. James’s Gate a Dublino. Che quando la birra veniva ancora distribuita nelle botti di legno – quindi fino agli anni ’50 – c’era una squadra speciale di annusatori che sniffava i vuoti di ritorno per controllare che non vi fossero infezioni batteriche.

guinness_4Dunque, torniamo alla domanda iniziale. Nel frattempo, sedotti dall’ambiente molto milanese, dal fatto che avremmo potuto giocare a scagliare pinte di birra contro i muri che subito sarebbe arrivata una silfide con un’altra birra, abbiamo stabilito che sì, anche nell’ambiente birrofighetto sopravvive un certo rispetto per una birra come la Guinness. Costruito grazie a un prodotto da decenni sinonimo di qualità produttiva, nonché, inevitabilmente, al fatto che siamo di fronte a un archetipo birrario: non esiste stout artigianale che, edipicamente, non si confronti con la nera di Dublino (bacchettata di Will: non è nera, è dark ruby red).

Ah, le birre. Sono buone. Non mi emozionano, ma assaggiatele quando vi capiteranno in mano – anche perché sono più piacione rispetto alla classica Guinness. Preferenze papille equamente suddivise, le curve dell’A7 ci aspettano per tornare in provincia.

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

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