I quattro dell’Avemaria (aspettando #grignolino1)

da | Feb 23, 2011

In casa papille non tutto fila d’amore e d’accordo. In particolare fra me e il papillo Ricci. Ci sono almeno tre punti discordanti: uno, lui fa l’attaccante e io il portiere, e quando nel lunedì del calcetto papillo giochiamo opposti sono dolori (in senso proprio: lui mi fa gol, e io gli esco sulle caviglie mirando chirurgicamente alla tibia). Due, enologicamente e gastronomicamente, nonché genealogicamente, siamo partigiani l’uno del piemonte (lui) l’altro della toscana (io). Infine, tre, ha dei cugini senesi che sono della Lupa, mentre la famiglia Nepi è tutta dell’Istrice.


(Va da sé che quest’ultimo punto è l’unico veramente grave.
Ma oggi qui ci interessa il punto due, quello toscana vs piemonte, e parleremo di vino).

Caro Ale, ti racconterò da dove nasce la mia enodiffidenza verso il sabaudo.

Barbera, Bonarda, Dolcetto e Grignolino. Ovvero i quattro dell’avemaria, in rigoroso ordine alfabetico.
Erano questi i vini che formavano il panorama bevitorio del ventenne genovese dei primi anni ’90. Perché Genova è de facto una provincia vinicola del Monferrato: se è rosso, da sempre i genovesi bevono piemontese. Ancora oggi basta dare un’occhiata agli scaffali della Coop – che pure si sono infighettiti seguendo la moda – per vedere come questi quattro rappresentino il 90% delle bottiglie sabaude e il 30% del totale. E naturalmente c’è sempre l’amico con lo zio, il cugino, l’amico del babbo, che ha la casa in Piemonte (rapido sondaggio: su tre papilli due hanno parenti e il terzo ha amici di famiglia).

Tornando al mio microcosmo, il risultato di questi complessi incroci socio economici è stato che da quando ho scoperto il vino e per i dieci anni successivi la bottiglia di barberabonardadolcettogrignolino fatto da un amico di mio papà, classica bordolese scura come il veleno con etichetta di un centimetro per tre scribacchiata a mano, è stata la pressoché unica compagna di bevute e serate.
Il problema è che una strizzata di calzini sporchi era di gran lunga migliore. Ma a vent’anni, senza una lira e con tutti che ti dicevano senti che buona questa, non è che ti mettevi a fare il sommelier: ti stappavi una Moretti per pulirti la bocca e via. 
Sono cose che segnano una vita. Un compagno di bevute di allora non si è più ripreso, è diventato enoschizofrenico bipolare e decanta allo stesso modo lo Cheval Blanc come il “Filagnotti 2007” imbottigliato da suo padre (ed è sincero! Ma come dicevo, ha dei problemi…).

La Bonarda era forse il cancarone più comune. Leggermente abboccato, col frizzo della fermentazione casalinga, veniva considerato quello che si abbinava meglio con le canne. Era sen’zaltro il più traditore, perché lo buttavi giù come fosse lambrusco ma poi ti martellava dietro la nuca e tutti contorni delle cose e delle discussioni assumevano toni sfumati.
Già a quei tempi non mi piaceva, da allora non ne ho più bevuto un solo bicchiere. E non sono disposto a fare ammenda, non ancora.

Il Dolcetto. Non era dolce e nemmeno abboccato, anzi, ed era l’unico disponibile pure in versione “ferma” (per cui guadagnava molti punti): considerato un po’ il fratello nobile della bonarda, detto anche “lo speciale”, perché non c’era volta che non comparisse una bottiglia senza che qualcuno dicesse oh, raga, questo è speciale.
Dopo quindici anni ho bevuto nuovamente del dolcetto il mese scorso, ed era buono: non è detto che fra altri quindici anni non tolga il mio veto, ma per ora no, nonostante il papillo Miggino ce lo spacci ogni volta che ci invita in campagna, con la scusa che il terroir qui è vocato (“asfaltate tutto e fateci dei parcheggi”, di solito rispondiamo – senza alcuna pietà vinicola).

Barbera: tanto per cominciare, non c’era nessuno che diceva “la” barbera. Era “il” barbera – maschile in quanto vino barbera – la barrique era di là da venire, lo scandalo del metanolo si era da poco sopito, il formato più comune era la magnum popolarmente detta il bottiglione. Rispetto a dolcetto e bonarda era più raro, nonché quello più famoso. In genere si comprava all’alimentari, ed era il “vecchio” barbera: frizzantino e spesso acido.
Con la barbera ho fatto pace. Quando ho iniziato a interessarmi seriamente al vino è stata una delle sorprese più gradite, al punto da diventare uno dei miei vitigni preferiti: ora anch’io dico “la” barbera. E ora non compro più bottiglioni, bensì delle magnum.

Dei quattro dell’avemaria, il Grignolino era senza dubbio quello con l’aura di vino nobile. Già un po’ il nome faceva.
Era rarissimo: quando una bottiglia compariva alle feste veniva maneggiato delicatamente, come quando brucewillis disinnesca le bombe. Profumo e colore lo distinguevano dalla brodaglia monferrina, e per un qualche mistero ancora inspiegato, nonostante fosse sempre di produzione casalinga, aveva una beva in grado di imporsi anche su papille ventenni altrimenti distratte dall’alcol e dalla mussa.
Questa personalità austera e un po’ schiva lo ha salvato dalla mia personalissima damnatio memoriae; tanto più che negli anni mi è capitato spesso di berlo in accompagnamento con i funghi fritti – un piatto in grado di espandere il mio karma di pace e amore ad ogni esperienza gustativa associata.

Ora mi si presenta l’occasione definitiva per stipulare una pace ufficiale col Grignolino: è #grignolino1, manifestazione nata su Twitter grazie all’estro di Enofaber. Il 12 marzo in quel di Portacomaro (AT), una sessantina di assetati curiosi – fra cui noi papilli – ci getteremo su ben nove grignolini selezionati per farci innamorare di questo vitigno “anarchico, individualista, balordo, testadura”, come lo definiva Veronelli. E anche poco conosciuto, aggiungiamo noi. I sessanta posti si sono volatilizzati in una mattinata e ormai le iscrizioni sono chiuse, per cui qui non ci dilunghiamo troppo sul prima. Ma vi racconteremo senz’altro del dopo.
Io qui ho fatto pubblica ammenda dei miei rapporti con in quattro dell’avemaria, e sono pronto per l’avventura.
Nascerà una lunga storia d’amore?

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

Leggi gli articoli correlati

Articoli correlati