Kastellorizo è “la più piccola, la più lontana” delle isole greche. Scompare dalle mappe, addossata alla costa turca a quattro ore di traghetto da Rodi. Ci sono stato una vita fa, attratto dal film Mediterraneo di Salvatores, che proprio su questo scoglio arso dal sole è stato girato.
Niente alberghi, qualche ristorante, tante case abbandonate in fila attorno a un camminamento che percorre la piccola baia dove sorge il villaggio. Un castello, qualche chiesa, una strada che porta al minuscolo, polveroso aeroporto (avete presente la scena della partita a calcio del film? È stata girata sulla pista di atterraggio), e poco altro.
Tanto silenzio. Nessuna spiaggia, acqua di vetro e tanti colori. Il minareto rosso della moschea (qui gli ottomani erano di casa), le facciate colorate delle case, così diverse da quelle bianche delle Cicladi.
Lunga premessa per farvi calare nell’atmosfera. Ovviamente siamo qua per parlare di cibo.
In un piccolo ristorante in una piazzetta, un pergolato e alcuni tavolini dipinti a mano immersi nel profumo del mare, ho assaggiato quello che ritengo il meglio delle cucina greca, che si basa su tre fondamenti ineludibili: pesce e carne, brace e marinatura! Un discorso a parte meritano il moussaka e i dolmades (involtini di riso e carne avvolti nelle foglie di vite), anch’essi sovrani dalle parti dell’Egeo, ma per me è la brace che racchiude l’essenza di un’estate accompagnata dal Meltemi!
Dicevamo: innanzitutto, il souvlaki di pesce spada: non semplici spiedini, ma un trionfo di bruciore pepato, limone e freschezza di erbe aromatiche: basta lasciar marinare il pesce per qualche ora in un mix di succo di limone, pepe, peperoncino, sapori della macchia mediterranea, aglio e sale e poi cuocere fino a bruciacchiare sui tizzoni rosso vivo. Unico, ve lo posso assicurare. Come unico è il polpo cotto così, su un semplice barbecue dopo essere stato battuto con una pietra, con l’immancabile succo di limone.
Dopo un piatto di gamberetti scottati, si arriva al dolce. Mi sono imbattuto nel Galaktoboureko per caso, ma non l’ho dimenticato: un budino al latte e farina di semola, cotto in forno tra decine di strati di pasta fillo, la più sottile, aromatica e croccante. Una meraviglia di semplicità casareccia!
C’erano pochi clienti, era di maggio, e l’isola appariva ancora più solitaria, oscura, con l’illuminazione pubblica spenta e la retsina (vino bianco resinato) che scorreva a fiumi prima di lasciare il posto all’ouzo. Ci soffermiamo a fare due chiacchiere col proprietario del ristorante, e ne viene fuori una bella storia. Non era nato lì. Era australiano, figlio di emigrati fuggiti dalla povertà, dalla guerra, dall’isolamento. Che un giorno aveva visitato l’isola dei suoi antenati e, addio modernità, addio frenesia, non se n’era più andato. Un po’ come il buon sergente Nicola Lorusso…