#vuu, i miei due centesimi

da | Giu 16, 2011

(Se ti chiami Mario non leggere questo post).
Sono i giorni del dopo Terroir Vino, una manifestazione che come qualcuno ha già detto divide l’anno enoico in un prima e un dopo; per come la vediamo noi, anche più di Vinitaly. Tra l’altro dopo alcune presenze sotto traccia, questa volta i Papilli c’erano in massa.
Proprio ieri su Twitter si è scatenata la discussione intorno alla Vinix Unplugged Unconference, la non-conferenza che si tiene il giorno prima (domenica) sui temi del vino e della comunicazione, che è finita un po’ nel tritacarne per alcuni difetti che sarebbero emersi.

Facciamo una premessa, anzi tre.
Intanto Twitter IMHO non permette di portare avanti discussioni adeguatamente. Il limite dei 140 caratteri è troppo limite quando hai molto da dire, ti devi mettere a tagliare avverbi e sfumature, e così escono fuori opinioni più tranchant di quanto non vogliano essere. Questo per dire: Filippo, io credo che a parte qualche inevitabile imbronciato che è nell’ordine delle cose, tutti vogliano dire la loro perché credono in #vuu e come te vogliono vederlo raggiungere le stelle.
Seconda premessa: era la prima volta che ci andavo. E, sì, ho un po’ la faccia come il culo, che da ultimo arrivato mi metto a esprimere opinioni. Ma non voglio ammorbarvi con i classici appelli al diritto di espressione sancito dalla carta costituzionale, sappiate che lo faccio proprio perché ho la faccia come il culo.

E dunque, terza e ultima premessa: secondo me #vuu è una bellissima idea. E a me è piaciuto molto: non mi sono annoiato, alcuni interventi mi sono piaciuti parecchio, altri pur esulando completamente dalle mie conoscenze mi hanno comunque incuriosito. Qualche sborone ovviamente no, ma ci sta (quiz: di chi sto parlando?).

Ad ogni modo durante la discussione twìttera sono state sottolineate alcune criticità. Vediamo quali, se le ho capite bene.
Una è il terrore di “parlarsi addosso”, cioè in pratica di rivolgersi sempre alla stessa platea. A parte che noi eravamo nuovi, e tre papilli valgon bene una messa, per me è un falso problema.
Scusate, ma chi credete che possa essere interessato da tematiche così particolari poste in una modalità così particolare? Non credo che ci sia modo di attrarre folle oceaniche: si andrà pian piano aumentando perché è in aumento la “base” internettara, ma quelli siamo.
E poi io sono vent’anni che tutte le domeniche davanti ad una birra “mi parlo addosso” coi i soliti quattro amici. E non mi sento certo sminuito: se la platea è intelligente, interessata, ha qualcosa da dare e dire, è più stimolante dell’avere cinquanta persone nuove che ti guardano come se fossi venuto da Marte, o da Milano, che per noi genovesi è la stessa cosa. Non devo vendere nulla, non ho bisogno di nuove orecchie, ho bisogno di cervelli accesi: vecchi o  nuovi fa uguale.

Seconda critica, non c’era #mario.
#mario (rigorosamente hashtaggato) è l’equivalente 2.0 e vagamente alcolizzato della vecchia “casalinga di Voghera”. Onestamente credo semplicemente che #vuu non sia il luogo adatto per #mario. Questa è forse la principale incomprensione di fondo che andrebbe risolta con un atto ufficiale in un senso o nell’altro (e sulla quale c’era infatti la più netta distinzione di vedute nella discussione). Per me, ripeto, non è roba da #mario. Ma potrebbe anche esserlo, basta che sia chiaro una volta per tutte.

Infine, la diffidenza verso l’intervento self promoting (che forse un po’ è legata alla voglia di avere sangue fresco in platea, dai, confessate). Personalmente, non dovendo comprare niente, non mi sono sentito tirato per la giacchetta da nessuno. Se uno ha fatto qualcosa di innovativo e interessante, vedi Armin, Luca & Luca o Design Wine – colgo fior da fiore – raccontarla non è promuoversi, o almeno, lo è indirettamente e inevitabilmente: ma ve lo immaginate quanto potrebbe essere ridicolo Armin che spiega “c’è un’azienda sudtirolese di cui non rivelerò il nome, che usa il tappo a vite da cinque anni”?

Vabbè, insomma, ma c’è qualcosa di migliorabile?
Certo. Come dice Jacopo Cossater (se non mi sbaglio) ci potrebbe essere un controllo pre-vuu sugli speech, con la possibilità di non ammettere quelli deboli: è molto difficile, intanto per capire prima se uno speech (che vive molto della capacità intrattenitoria del suo speaker) sia valido, poi perché è una barriera mica da poco che non stimola certo la gente a proporsi. Difficile, ma ragionandoci bene potrebbe essere una strada da percorrere.

Ufficializzare dei macro-temi. Io ne vedo due: 1) tecnologie e chiacchiere sul fare il vino, 2) tecnologie e chiacchiere sul comunicare il vino. Eventualmente si potrebbe pensare anche ad un terzo sul marketing e la vendita. Individuate le tematiche, dividere il programma di conseguenza e provare ad attrarre più gente grazie alla segmentazione.

L’interazione è anche teatro e la socializzazione dipende dalla scintilla dell’empatia umana. Aristide Blog ha detto molto, qui. E sono perfettamente d’accordo. Illuminazione, disposizione della sala, presentarsi, prevedere momenti di socializzazione (se non ti conosco, magari non commento perché sono timido), un moderatore per tematica. Per noi che non conoscevamo quasi nessuno avrebbe fatto parecchio. Fermo restando che non c’è niente di male a non aver interazione dopo gli interventi, fa più lezione, sì, ma non facciamo quelli che hanno il terrore di apparire formali: non è da questi particolari che si giudica un giocatore.

E ora tocca a noi. Eravamo verginelli e non abbiamo aperto bocca. Comprensibile ma criticabile. E allora io qui, ora, adesso, prometto che l’anno prossimo porteremo uno speech. E che getteremo il cuore oltre l’ostacolo provando a dire qualcosa di intelligente dopo gli interventi che ci stimoleranno di più.

Ok. Aprite il fuoco.

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

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