Il vino è un concentrato di cultura. Altrimenti sarebbe una bibita.

da | Lug 16, 2012

“La prova dell’esistenza di Dio sta nell’aver accoppiato nello stesso territorio il foie gras e il Sauternes: uno non esisterebbe senza l’altro”.
Parole di Philippe Daverio, pronunciate ieri a Barolo, durante la rassegna Collisioni, dove il critico ha presentato il suo ultimo libro “Il museo immaginario” e ha parlato del vino tra “estasi e rappresentazione“. E dopo aver raccontato che nelle “Nozze di Cana“, il quadro di Veronese esposto al Louvre, è dipinto, “il primo sommelier della storia dell’arte, il padrone di casa intento a valutare la bontà del vino proposto ai commensali” e provocato sull’Europa “che non può fondarsi né sull’euro né sul lavoro, ma forse sul vino“, Daverio ha raccontato perché il vino è cultura.

“La bellezza del vino è la sua perversione concettuale, con la quale richiama tantissime cose, diverse una dalle altre. I vini sono roba bizzarrissima, sono esattamente come la cultura, sono la testimonianza del nostro modo di essere. Negli Stati Uniti, dove ho vissuto molto tempo, vanno matti per vini costosissimi della California, che non mi sono mai piaciuti. Vini che cercano di somigliare ai nostri e ai francesi, ma sono diversi: gli manca il fatto che uno parla piemontese, l’altro parla friulano, l’altro toscano, l’altro borgognone, l’altro bordolese. Vi racconto un aneddoto su Pavarotti, che frequentavo in America. Dopo gli spettacoli,  le sue cene erano impressionanti. Durante una di queste, in un grande ristorante circondato da gente ricchissima, fece il gesto più dadaista che abbia mai visto fare. In tavola si stappavano bottiglie californiane da 700, 800, 1000 dollari, vini comunque affascinanti nella loro pesantezza psicologica. Pavarotti si fece portare un grande bicchiere pieno di ghiaccio e chiese un ginger ale, versò assieme il vino col ginger ale e il ghiaccio, lo girò col suo ditone, si mise a bere e disse: “oh ben, finalmente sembra un Lambrusco!

E poi, senza parlare di terroir, Daverio ha dato la sua definizione di “terroir culturale“.

“Perché è simpatico il Barolo? Perché è il prodotto di questo curioso Piemonte permeato di avarizia e avidità, o se vogliamo, ma è la stessa cosa, di parsimonia e spirito d’investimento. Il Piemonte è tenace, infatti è riuscito a fottersi tutta l’italia, è determinato, non molla mai. Il Piemonte ama la tranquillità parsimoniosa delle muffe, infatti fa i formaggi. Queste caratteristiche, il paesaggio, i vecchi castelli, le muffe invernali, un certo bigottismo mentale, la voglia di mangiarsi tutta l’Italia: tutto questo percorso si trova in un bicchiere di Barolo, e lo stesso bicchiere  di vino fatto in California o Cile non ha più la stessa storia, non contiene più i generali ottocenteschi con la divisa e la doppia abbottonatura in argento. Il vino è questo concentrato di cultura. Altrimenti sarebbe una bibita“.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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