Guardate attentamente questa immagine. Vassoio, broccolo lesso, bottiglietta di plastica, luci fredde: esatto, siamo in un mangificio per impiegati. E guardate quell’arrosto, con un’improbabile salsina marrone e la foglia di salvia di rappresentanza: è l’ultima cosa che vorreste mangiare, vero?
E invece sbagliato.
Perché è delizioso. In una classifica degli arrosti casalingo-style della mia vita, questo entra tranquillamente nella top ten. Cioè, per dire, mia mamma non lo fa così buono. Succulento, grasso al punto giusto, saporito, texture eccellente. Eppure per prenderlo bisogna incolonnarsi col vassoio in mano, e per pagarlo sfoderare il tradizionale blocchetto dei ticket restaurant.
L’altro giorno ho realizzato che ogni volta che vado a mangiare lì, prendo quell’arrosto. Anzi, vado lì perché c’è quell’arrosto: è la sua immagine che si materializza nella mia mente quando sfoglio la margherita di possibili posti-pranzo.
La questione sta acquistando contorni di feticismo, il che può sorprendere chi – da bravo gourmet – non qualifica neanche il pasto da impiegato come “pasto”.
Eppure la vita dell’impiegato modello è piena di esempi food-fetish. Dal caffè che ti riappacifica con la caffeina dopo il brodo delle macchinette automatiche, al sushi del venerdì, al panino con la porchetta di Ariccia che prendi sempre quando bisogna mangiare davanti al computer.
E attenzione, c’è vita oltre il ticket-restaurant: spesso il feticismo goloso è ben riposto e lo status di impiegato modello può aprire la mente, e di conseguenza la strada, a piccole gioie gastronomiche – precluse ahilui al gourmet tutto d’un pezzo.