È in corso un dibattito decisamente appassionante in questi giorni. Su alcuni media nazionali (nel cortile eno-fùd ci si sguazza da anni su questi argomenti) si parla di agricoltura biodinamica: è una pratica che ha effetti reali oppure è vudù da stregoni? Fa bene all’ambiente o solo alla nostra coscienza? Si deve dare credito alla promozione e alla discussione su questo approccio o no?
Dibattito ai vertici
In quest’ultimo interrogativo può dirsi l’origine dell’ultima contesa, che viene da lunga data e va ben oltre i confini del dibattito tra addetti ai lavori del mondo enogastronomico.
L’ultimo casus belli è offerto dall’Università di Bocconi di Milano, la quale si è prestata a dare il Patrocinio a un convegno sulla biodinamica (peraltro, come si vede dal sito del convegno stesso, patrocinato anche da Ministero delle Politiche Agricole, Regione Lombardia e Comune di Milano).
La Senatrice Elena Cattaneo, paladina della scienza in occasione di diversi dibattiti che si sono tenuti nel nostro paese negli ultimi anni (uno a caso: Stamina) dice cosa pensa della biodinamica, senza tanti giri di parole: “Non è possibile che [Il Ministero cfr] non si sia in grado di distinguere tra competenze, professionalità e ciarlataneria” (Il Foglio).
Si aprono le danze del batti e ribatti. A dare la stura un intervento di Davide Maria di Luca su Il Post, che si pone la domanda: “la biodinamica è una cosa seria?” E risponde (sintetizzo): “No”. Sul tema si è poi espresso, proprio in risposta a Il Post, anche Michele Serra sulla celebre Amaca, dicendo in sostanza: “saranno anche bizzarri i sostenitori della biodinamica, ma almeno non fanno male al pianeta”. La controreplica è arrivata a stretto giro.
Cosa è la biodinamica
Volo di link in link, cercando altre fonti, altri luoghi di battaglia (verbale eh), passo attraverso fonti più o meno ufficiali che raccontano cosa è la biodinamica. Per quanto riguarda l’agricoltura, è caratterizzata da una serie di composti (il cornoletame è il più noto), di pratiche inventate e divulgate dal filosofo Rudolf Steiner a partire dagli anni Venti del Novecento. I suoi metodi sembrano avere poco a che fare con la scienza e la tecnica agraria contemporanea, assomigliano più a riti (ben protetti da copyright, suvvia) e fanno riferimento a un contesto più ampio della coltivazione: ci si rende subito conto che l’approccio mira alto. Sul sito dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica si leggono alcuni messaggi chiave: “Aver cura della terra per aver cura dell’uomo”, “Un ambiente sano, che nutre il nostro essere”, “Fertilità della terra e umanizzazione dell’agricoltura”. Nello Statuto stesso dell’Associazione i suoi metodi vengono descritti come “scientifico-spirituali ad indirizzo antroposofico”. Infine, la prima riga del manifesto di un convegno organizzato dall’Associazione nel 2015, recita: “L’agricoltura è oggi chiamata a svolgere un ruolo guida per gli indirizzi ispiratori della vita del Pianeta”. Si punta alto, altissimo.
Scienza o credenza?
Questo è precisamente ciò che i razionalisti non reggono. “L’agricoltura biodinamica va di moda, ma si basa su credenze irrazionali e i suoi effetti sono simili al biologico” twitta l’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) linkando il succitato articolo de Il Post.
L’idea che le pratiche di agricoltura biodinamica e biologica diano risultati molto simili, come dice il tweet di UAAR, viene anche da uno studio scientifico postato in questi giorni da Dario Bressanini. Si conclude in modo chiaro: “data l’esiguità della letteratura e la mancanza dati affidabili e comparabili che supportino l’efficacia dei composti biodinamici, l’agricoltura non è misurabile distintamente da quella biologica e dunque non è consigliabile come pratica basata sull’evidenza scientifica”. Chiuso il discorso.
E invece no. Lo studio dice anche un’altra cosa, una specie di avviso ai divulgatori. Questi ultimi, secondo gli autori, devono dare le informazioni corrette sulla scienza evidence-based, come si suol dire, ma devono anche “essere attenti anche a chi, nel loro audience, ha optato per un sistema di valori, sia anche una credenza”. Dire: “capra”, insomma, non basta.
Jacopo Cossater, come riportato da Fiorenzo Sartore su Intravino, dice: “trovo che il dibattito fatichi a trovare una qualunque via d’uscita, e il problema ha a che fare da una parte con i suoi detrattori più feroci e dall’altra con i suoi sostenitori più ciechi”. La feroce razionalità contro la cieca credenza: questi i protagonisti della discussione.
Raccontare storie
Come mai la biodinamica divide in modo così netto? Una lampadina mi si è accesa leggendo un commento su Intravino, in cui Enrico scrive, tra le altre cose, spiegando la sua adesione alla teoria steineriana: “mi sento una persona migliore di quanto fossi prima”. L’Amaca di Serra, da un altro punto di vista, diceva una cosa simile: saranno strani ma “non fanno male a nessuno”. Al netto di interessi economici che non affrontiamo qui, sentire di far la propria parte (e quindi sentirsi meglio) per un mondo migliore, mi pare un punto centrale. Il contesto di valore è evidente, ed è difficile smentirlo con i fatti. O meglio, può essere semplice dimostrare che un pugno di letame seppellito per un anno, poi diluito in dosi omeopatiche e spruzzato in una vigna o un appezzamento, difficilmente avrà un’influenza chimico-fisica apprezzabile. Meno facile convincere chi ha aderito alla teoria che si tratta di una balla, una storia. Potrà sempre rispondere: embè che male c’è?
“Storia” può essere certo in alcuni casi sinonimo di balla, ma il suo significato non si ferma lì. Il nostro stesso modo di pensare e di pensarci nel mondo ha bisogno di un racconto (alzi la mano chi non ha incontrato almeno una volta sul proprio cammino la parola storytelling, un modo cool per dire “raccontare storie”), di un contesto ampio, di un orizzonte di senso. Come ha scritto Wu Ming 2 su Carmilla ormai qualche anno fa: “La scienza cognitiva ha scoperto che il pensiero lavora per lo più in maniera inconscia e che buona parte di questi meccanismi neurali nascosti richiamano strutture narrative. Scheletri di miti e leggende sono tatuati sui nostri cervelli con un inchiostro elettrico”. E ancora: “Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo. Abbiamo bisogno di scenari e le narrazioni ce li forniscono, spesso con un vantaggio importante rispetto alle cosiddette analisi razionali: le storie ci fanno emozionare e le emozioni, lungi dal contagiarla, sono invece un ingrediente essenziale della ragione. Senza rabbia, passione, tristezza e speranza non saremmo in grado di ponderare la più piccola scelta. Ci comportiamo in modo da essere felici, non per massimizzare l’utilità attesa”.
Volendo lo stesso discorso scientifico appare una storia (il racconto dello sviluppo delle conoscenze umane, della tecnica, delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, per esempio), anche se suo malgrado spesso è meno emozionante di altre. Ed è chiaro che la storia della biodinamica si è appropriata di una serie di valori (buono, giusto, bello, sano, pulito, ect) che piacciono molto a chi vuole sentirsi una persona migliore (non parliamo qui di chi la cavalca per interesse o chi ci marcia).
“Spesso il racconto – scrive sempre Wu Ming 2 – non tiene e si può smontare, a patto di non illudersi che i fatti possano bastare. Le prove servono nelle aule di tribunale, con l’opinione pubblica non sono sufficienti”.
Per tornare alla domanda iniziale: la biodinamica è una cosa (storia) seria?
Forse no, non lo so, forse è un rito e proprio per questo una cosa serissima. In ogni caso mi persuado che provarla sbagliata è solo un pezzo del puzzle. Se non piace, serve una storia diversa.