Genova sapor

da | Feb 23, 2012

È un movimento, una lunga colonna di ombre e visi che si striscia e fugge, che visita portoni, tira occhiate a botteghe e panni stesi su fili corti ed annodati. Figure statuarie ai bordi delle case con tette ben tirate su e gonne-mutandine. Uno sbattere contro nazioni sempre nuove, odori di continenti lontani che si risvegliano girando l’angolo. Lineamenti africani che si mescolano a gerghi sguaiati sudamericani, e napoletani che confabulano tra di loro e cinesi che aprono nuove botteghe sfrattando per sempre vecchie osterie e drogherie. Luce che disegna ombre nette sulle geometrie dei palazzi appesi uno a fianco dell’altro, e luce che intesse echi di sole dove il sole non batte diretto. Strade tanto strette che paiono quasi allargarsi apposta al passare di un’ape carica di frutta, o solo per una coppia che si tiene per mano e sembra turista per caso, anche se genovese.

Un movimento continuo che corre via in diagonale, si interseca, si scontra con un muro, si stende su corte vie, e poi si sorprende, quasi rapito, sempre stupito, quando da un vicolo stretto come un ago sboccia una piazzetta tonda, o uno slargo improvviso. E magari la chiesa di San Matteo ti sorride gotica e genovese come nessun’altra. E piazza Lavagna dov’è? Piazzetta Cambiaso? Piazza della Lepre? La basilica delle Vigne? Movimenti che vanno, si perdono, ritornano sui propri passi, affogano in un’aria carica di note musicali ed odori inaspettati. Movimenti lenti, veloci, zigzaganti, un tuffo verso il mare e duepassidue alle montagne. Il pescivendolo lava le pietre antiche rovesciando un secchio azzurro. Movimenti veloci, lenti, zigzaganti, intorno ad un palazzo, inseguendo una vecchina che sembra una strega, un gatto con occhi da diavolo, un bimbo marocchino che felpato si incunea tra i ponteggi di un vicolo decaduto, deceduto. Matrone nigeriani ai bordi dei call-center che sguainano e frullano parei e vestiti larghi dai colori africani di savane e oasi e giraffe che brucano i germogli più alti di un vecchio arbusto. Movimenti confusi dietro la tenda di una stanza al piano terra dove tanti ci trovano l’amore e dieci minuti di serenità. Movimenti cullati, braccati, lascivi, innocenti, furtivi, movimenti al gusto di caffè e cannella e panna montata; luce mossa dall’ombra di una giuggiola. Una gattara si china, un turista si inarca ad osservare i tetti delle case.

Movimenti lenti, andate e ritorni, andate senza ritorni, canapai aperti e ragazzini curiosi, negozi di vecchi vinili che girano in tondo in tondo e non casca il mondo. Un mondo che si muove, e si siede, al bar, dietro fila di bicchieri vuoti, tocchi di focaccia, tazzine sporche di rossetti da due soldi e salive di vecchi biascicanti dialetti. Ombre che fuggono e visi che folgorano.

Un vicolo di Genova è tutto questo, e anche di più: è una casa, una culla e una madre. E per Luca, che vive qui da ottant’anni e tutti lo salutano per strada e nei negozi, e quando va a buttare la rumenta alla sera, quando il caldo s’addolcisce e la luce s’intristisce, c’è sempre una madama che gli chiede qual buon vento lo porti e lui le sussurra che è vento di tramontana e mare docile per buona pesca.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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