“Gianni! L’ottimismo è il profumo della vita!”
Non sono passati nemmeno 10 anni da quando Tonino Guerra prestava il suo ottimismo a Unieuro, eppure le parole d’ordine sono assai cambiate. Sobrietà e loden verde sono arrivati al potere e la situazione economica (e sociale) italiana impone parsimonia e oculatezza, mentre Oscar Farinetti da titolare di Unieuro si è catapultato nel successo di Eataly, primo esempio in Italia di market del luxury food.
Dobbiamo essere sobri e puri? E sia, anche in cucina. Ma non è facile. La sobrietà non è ancora arrivata al cuore della gastronomia rampante, che vive ancora l’epoca della cucina star in tv, degli chef al potere e della venerazione dei prodotti enogastronomici di nicchia [mentre la cultura del cibo, in grande parte, è carente o assente, perlomeno tra le mura domestiche, dove si cucina sempre meno e per minor tempo].
Il ristorante contemporaneo rivendica (e fa pagare) il suo diritto alla ricerca del “piatto perfetto somma di ingredienti perfetti”, e non è à la page se non presenta in carta gli spaghettoni di Gragnano del pastificio Tal dei Tali, il sale dell’Himalaya, le acciughe del mar cantabrico, il pepe nero di Penja, e poi l’uovo magico di Parisi, il fagiolo della Valle degli orti e la lenticchia che arriva direttamente dall’Eden, e magari anche il coniglio grigio di Carmagnola, l’autentico foie gras delle oche protagoniste degli Aristogatti (le gemelle Adelina e Guendalina Bla Bla) e il piccione scapestrato che occupa il sottotetto di un attico in campagna.
Ma a casa? Ricordiamoci, loden e sobrietà. Perseguire la strada del prodotto perfetto comporterebbe il periplo del mondo e un drastico decurtamento di pecunia dal proprio borsellino. Meglio puntare sul manico (le capacità del cuoco), sull’estro di un piatto nato dal recupero degli avanzi, su una ricetta semplicemente buona. La tradizione gastronomica italiana è fondata su queste doti. Ma ricordiamoci di togliere il loden quando si entra in cucina, che le ditate di unto non sono mica sobrie.