Mi stanno morendo tutti i forni. Non so se vi rendete conto di cosa questo voglia dire. Il forno fa il pane – il pane! Parola d’ordine di secoli di lotta per, appunto, il pane – e la focaccia, ovvero quel marchio indelebile che fissa la genovesità al quartiere, all’isolato, a quel negozio dove si serve la mamma da quando sei piccino e che identifica il personale gusto di focaccia che ti accompagnerà per la vita.
In pochi giorni mi sono arrivate due sberle in sequenza. Dice mia mamma che chiude il forno “in fondo alla chiesa” (i negozi di famiglia si distinguono o col nome del proprietario, o con coordinate geografiche spurie e decodificabili solo dai familiari), o meglio, che resta aperto ma che non fa più il pane. Come dire che Rocco Siffredi continua a fare film porno, ma non usa più il cazzo.
Il forno in fondo alla chiesa non era il forno di famiglia, tutt’al più era quello di riserva. Non ha formato il mio gusto di focaccia, anche se ricordo bene che da bambini ci facevano entrare dietro, dove c’era un’impastatrice immensa che rimestava e rimestava e rimestava quell’affascinante mescolone di acqua e farina. Però era rimasto l’ultimo forno del quartiere. E i quartieri a Genova sono in salita, spostarsi da un circondario all’altro può voler dire scarpinare per un quarto d’ora, per cui funzionano un po’ come piccole enclave, devono essere autonome pena l’agonia.
Ripercorrendo l’arteria principale della zona, ovvero dall’ascensore pubblico fino alla chiesa e poi giù, conto oggi un giornalaio, un tabacchino, un alimentari, un fruttivendolo, una latteria, un parrucchiere, un altro, il forno che non fa il pane e il secondo giornalaio. Le serrande abbassate ospitavano: un fiorista, un non mi ricordo, una lavanderia, una latteria, un fruttivendolo, un macellaio, un’altra latteria, un altro fruttivendolo, un altro macellaio, una merceria. E non conto l’ape che passava tutte le settimane col pesce.
Mia mamma la butta sul sociologico: “ormai questo è un quartiere di vecchi, le famiglie giovani come voi [giovani? ah, core de mamma] in cui lavorano entrambi ormai fanno la spesa alla coop. La gente parla apertamente di andare a vivere nei viali, speriamo che aprano il Diperdì dove c’era la fabbrica della Panarello” (altra coltellata: non potete nemmeno immaginare cosa era il profumo che si levava dalla Panarello – sostanzialmente essenza di “biscotti Lagaccio” – e ora ci va un minimarket).
Torno a casa un po’ scorato, e ho voglia di un pezzo di focaccia, anche se con questa maccaia sarà inevitabilmente gommosa. Ho la fortuna di avere un ottimo forno, uno di quelli che sta nelle guide golose, a venti metri dal portone.
Chiedo alla fornaia quando fanno le ferie. “A fine mese, ma poi non riapriamo più”. Trasecolo, me lo faccio ripetere almeno altre tre volte. Chiudono. Si trasferiscono ad Albaro, dove sperano sostanzialmente di alzare il fatturato. Speranza legittima, ma io come faccio?
Non so perché ma la prima cosa che mi viene in mente è che a mio figlio piaceva andare lì, guardare la pala che si muoveva sul soffitto (e sgraffignare un pezzo di grissino sfoderando il proprio charme di unenne), e che ora lui non avrà il suo ricordo dell’impastatrice che gira gira gira.
La fornaia cerca di rassicurarmi, mi dice che pane e focaccia continueranno a spedirli al negozio di pasta fresca accanto. Non le rispondo che non compro pane e soprattutto focaccia da chi non l’ha tirata personalmente fuori dal forno.
Cosa ci verrà qui? Boh, di sicuro non un panettiere. Mica il centesimo negozio di minchiate cinesi? Chi lo sa.
In preda ad un’immediata depressione vado dal macellaio accanto: gli spiego, naturalmente sapeva, mi dice che la situazione è grigia, che ormai non passa più gente come prima. E stiamo parlando di uno dei vicoli più animati del centro storico. Che paradosso, il colpo più duro è stata la pedonalizzazione della parallela via San Lorenzo, prima deserto di smog e ora struscio cittadino: però così la gente non passa più da Canneto, ed è anche comprensibile (non per me, Canneto è magica).
E ora? Ora Accanto al panificio che chiude ce n’è un altro specializzato in pizze dove però il pane è davvero buono. E sulla strada per l’asilo c’è Patrone, una delle migliori focacce di Genova.
Insomma, alla fine, non moriremo di fame. I prodotti, i pani, le focacce, quelli si trovano.
Sono i luoghi, le persone e i momenti che spariscono. Per sempre.
Cazzo.