Il paradosso della cultura enogastronomica italiana

da | Apr 21, 2011

Cibo e vino sono i temi del momento, alla ribalta su ogni mezzo di comunicazione. Ma la cultura enogastronomica italiana non sembra crescere. Forse perchè la cultura, qualsiasi genere di cultura, richiede tempo per alimentarla e oggi pochi han tempo e voglia di farlo.

Chef trasformati in star, nomi di vini e di cantine che si rincorrono nei discorsi degli appassionati, centinaia di blog, canali televisivi tematici, ristoranti gourmet scansionati 24 ore su 24 da uno stuolo di buongustai, libri di cucina in cima alle classifiche di vendita. Mai come oggi il mondo dell’enogastronomia è stato sotto i riflettori.

Ma basta intaccare la sottile crosta superficiale di questa bolla mediatica, per trovare una realtà molto diversa. In Italia non si è mai bevuto così poco vino come oggi: il consumo di vino pro-capite si è attestato nel 2010 sotto la soglia dei 40 litri (-30% rispetto alla fine degli anni ’80). In famiglia il tempo dedicato ai fornelli è in costante diminuzione. La distanza tra produttori e consumatori è in molti casi incolmabile. L’obesità in costante ascesa.

Siamo di fronte a una situazione paradossale. Ma non c’è da stupirsi. La regola fondamentale è sempre la stessa: la quantità non è mai direttamente proporzionale alla qualità. Il grande discorrere contemporaneo di cibo e vino non ha minimamente spostato in alto l’asticella della cultura enogastronomica media italiana. Anzi, i confini tendono a scivolare all’indietro.

C’è un mondo spaccato in due. Da una parte, pochi punti percentuale di persone estramamente esigenti (in molti casi pure troppo, ma questo è il difetto di chi è monomaniaco). Quelle che conoscono tutti i vini, citano confidenzialmente per nome gli chef e sono amanti segreti di Bonci e di Bottura. Oltre il fiume, la stragrande maggioranza, che invece tende ad arrancare da un supermercato all’altro, che non legge blog e libri di cucina, ha poco tempo per cucinare né soldi (e mentalità) per spendere 100 euro a testa in un ristorante.

Si parla tanto di cibo, ma non esiste una cultura del cibo. Vado oltre: non esiste una cultura delle papille, del palato. Date a dieci appassionati – non astemi, ma appassionati, gente che beve vino regolarmente, non avvezza al Tavernello- due bicchieri alla cieca, uno di Barolo, uno di Barbera che ha fatto legno. Otto non saranno in grado di riconoscere i due vini.

Quadro losco? Di certo non salvano il panorama migliaia di post dedicati al cibo. Fateci caso. Prendete qualsiasi blog. I post di ragionamento difficilmente fanno decollare una bella discussione (ci sono le eccezioni, come questa, letta proprio oggi). Sono i post gossipari invece, ad attirare decine di commenti. Questa tendenza, purtroppo, la si può riscontrare ovunque, in qualsiasi settore dell’informazione (andate a vedere quali sono le notizie più lette su Corriere.it e Repubblica.it: ogni giorno dominano emerite puttanate), in qualsiasi ambito della nostra vita.

La cultura ha un grande difetto: occorre tempo per alimentarla. Questo vale anche per la cultura gastronomica. Che non significa conoscere a memoria chef e ristoranti stellati, né fare gli sboroni citando centinaia di etichette di vino. Cultura gastronomica significa mangiare bene, tutti i giorni, consapevolmente. Significa conoscere i prodotti di stagione, sapere fare la spesa, saper cucinare, apprezzare le diverse culture del cibo. E anche apprezzare chi cucina con onestà, sia la trattoria autentica o il Bottura di turno.

C’è tanta strada da fare.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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