Il cibo – come raccontarlo

da | Giu 29, 2010

A volte penso che sia solo un pretesto, il cibo, per parlare d’altro. Parlare di gesti, e paesaggi, fare letteratura, descrivere incontri. Mi accade quando ho la pancia piena. Quando inizio a sentire i morsi della fame, invece, sono ragionevolmente certo che parlare di cibo non è altro che parlare di cibo. Linda mi dice spesso che l’animale che ho in me è molto forte, tanto forte che spesso mi soggioga. E per l’animale il cibo, la ricerca del cibo, è azione fondante della sua esistenza. In questo spazio, come in altri, parliamo più di cibo ricercato, che di ricerca del cibo. Perchè scriviamo a pancia piena, certo. E quindi, parlare di cibo è solo un pretesto, per parlare d’altro. Fino al prossimo morso della fame. Riporto alcuni brani sul cibo: al centro gesti, paesaggi, letteratura, incontri. I migliori due sono di Stefano Caffarri e Carlo Emilio Gadda.

1- Pausa pranzo. In casa, da solo. Distolgo finalmente gli occhi dallo schermo del computer e guardo oltre, al verde delle pareti della mia stanza. Affretto i passi fino alla cucina, dove sfilo dal sacchetto di carta marrone una bella pagnotta e la taglio in due. Poi, la poso nuovamente sul sacchetto e apro il frigorifero, in cerca del companatico. Trovo qualche fetta di prosciutto crudo e della ricotta fresca. Quasi perfetto, avrei solo preferito la mortadella. Con cura, sistemo lentamente le fette di prosciutto, stando attento a coprire tutta la superficie del panino, senza andare oltre il bordo. E’ il turno della ricotta. La spalmo sulla fetta superiore della pagnotta. Richiudo il panino, lo comprimo leggermente. Non sembra neanche tagliato, né imbottito. Sette otto morsi e il gioco è fatto.

2- Vorrei annoiare i miei pochi ma affezionati lettori con le sfumature glottologiche a proposito della differenza tra Altopiano e Altipiano, ma oggi è nuvolo, il pendolo climatico mi ha acciaccato l’apparato respiratorio e dunque: mi astengo. Resta che attraversare l’Altipiano di Navelli lentamente, su una Bentley decappottabile aperta a sessanta all’ora è uno dei sogni della mia vita. Poi fermarsi a Navelli, un luogo più di ruderi che di case, arrampicato fino a edifizi tornati pietre in cima al cocuzzolo è un’esperienza quasi mistica. Scovare i produttori di zafferano è cosa improba ai comuni mortali: delle due volte che tentai, solo una ebbi fortuna: quando acquistai qualche vasetto di pistilli per l’equivalente del PIL del Botswana. Finito questo non saprei più dove trovarlo. Non farò finta di riconoscere le differenze tra uno zafferano sopraffino ed uno solamente buono: troppo rara la prossimità con questo ingrediente nella sua forma più preziosa, troppo inconsueto l’uso: ma di certo questi fili di Navelli profumano e tingono in modo assai profondo, e danno soddisfazioni. […]

3- […]Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.

4- […] Riccardo voleva andare a bere qualcosa. Anche a lui cominciava a dar fastidio la massa di visi attorno che non aveva più voglia di fissare, e tutti i corpi da schivare, che lo facevano avanzare lentamente, zigzagando; con la fatica ulteriore di doversi trascinare dietro anche il corpo di Elena.
– Entriamo in questo bar- disse.
– Va bene.
All’interno, nell’atmosfera cupa di neon tremolanti, c’erano pochi avventori. Un vecchio, solo, solo col suo cappello appoggiato al legno del tavolo, sedeva nella penombra in fondo al locale, sorseggiando un bicchiere di vino rosso; mentre a fianco, quattro pensionati sbraitavano giocando a scopa. Riccardo decise dove sedersi, vicino alla piccola finestra, l’unica della sala, che dava in vico della Lepre.
– Cosa vuoi bere?- chiese ad Elena
– Non so. C’è qualcosa di tipico, qui?
Che domanda sciocca. Sciocca e provinciale, pensò Riccardo.
– Due bianchi di Coronata- ordinò deciso.
– Cosa sono?-
– E’ un vino delle colline sopra Genova.
– Ma no! Non bevo vino, a quest’ora!
– Peccato. Che prendi, allora?
– Un analcolico alla frutta.
Riccardo si alzò per andare al banco, e  ordinare. Si vergognava ad ordinare un analcolico alla frutta. Non era nemmeno certo che l’avrebbero servito. La barista, sulla sessantina, capelli biondi, bianchi alla radice, stava lavando piccoli bicchieri da vino al lavandino in marmo. Non era certo il locale dove portare una ragazza appena conosciuta.
Sulla porta d’ingresso si affacciò una vecchina, molto minuta, dalla faccia grinzosa e secca, illuminata da un sorriso dolce, e due occhi stretti molto espressivi. Scrutò il fondo dell’osteria, e si diresse, con circospezione, verso il tavolo della scopa.
– Salve, Ninetta- disse la barista, con in mano lo strofinaccio di cotone per asciugare i bicchieri.
Uno dei giocatori urlò: – Guarda, Mario, è venuta a prenderti la sorellina.-
Mario, il fratello, non alzò gli occhi dalle carte, né salutò con la voce Ninetta; ma sul suo volto apparve una smorfia quasi seccata, proprio come i fratelli maggiori, che non sopportano l’intrusione delle sorelle quando giocano con bambini coetanei. Lei, dopo essersi sfilata il cappotto nero di due taglie più grandi, prese una sedia e si sedette al fianco del fratello, restando in silenzio, sorridente. Tutti e due superavano abbondantemente l’ottantina, sicuro.
Riccardo, dopo aver ordinato il suo bicchiere di vino e l’analcolico alla frutta, che consisteva in un semplice succo di  pesca, tornò al tavolo.
Osservando dalla finestra la drogheria di fronte, chiese – Ti è piaciuta la prima impressione di Genova?-
– Un po’ confusionaria. E troppo sporca.
– Siamo nell’angiporto, non in un salotto per vecchie ingioiellate.
– Comunque è troppo sporca.
La barista portò le due ordinazioni. Riccardo non aveva più voglia di parlare, e bevve il suo bianco in un solo sorso, rapido. Elena invece bevve lenta, in silenzio, fino a metà bicchiere; poi trangugiò il fondo. Forse aveva pensato che potesse essere tardi.
– Che ore sono?- chiese, infatti.
– Le quattro e mezza. Andiamo […]

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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