Appunti per la giornata: recitare il mea culpa

da | Giu 3, 2011

A volte anche gli esseri perfettissimi, come me, commettono degli errori. Devo infatti fare pubblica ammenda per aver scientemente ignorato la scena della birra artigianale italiana per tanto, troppo, tempo.
Questo post fungerà da gogna. È vietato tirare sassi.

Birra artigianale, dunque: parliamo di una storia (per me) antica. Non mi ricordo in che anno, ma doveva essere più o meno il 1995, comprai con gli amici il primissimo kit per farsi la birra in casa che comparve in città, in un negozio di articoli da giardinaggio (gente che aveva con lungimiranza colto il nesso fra malti e fiori, fra luppolo e stallatico. Infatti ora al loro posto c’è un ristorante cinese). L’idea era come al solito modesta, cioè conquistare il mondo.

Come spesso capita ai grandi progetti progressisti, anche questo si scontrò con la dura realtà: la nostra birra casalinga faceva schifo. E questo nonostante nel gruppo si contassero un perito chimico, un vorrei-fare-il-biologo e ben due vorrei-fare-l’ingegnere (specie umana, quest’ultima, diffusissima fra i birrai artigianali italiani. Qualche antropologo un giorno ci studierà sopra).
Peggio, più ci incaponivamo a sperimentare, più imbevibile risultava la brodaglia. Morale, il kit è finito in cantina assieme ai nostri sogni di gloria e alle bottiglie che nessuno aveva più il coraggio di bere (sono ancora lì, citofonare “Lunardi”).

Da questo fallimento è nato il blocco. Mentale, per carità, ma almeno nei primi tempi/anni confermato dai test dei pochi prodotti artigianali che riuscivamo a procurarci; il mio publican di fiducia li ha sempre tenuti. Ma niente. Puzzette, odori di lieviti morti, prezzi alti, poche emozioni: insomma, non è mai sbocciato l’amore.
E così ad un certo punto ho proprio chiuso i rubinetti del cervello, e ho ignorato la materia per lunghi anni ripetendomi semplicemente “tanto non esistono birre artigianali buone”.

Che poi tra l’altro ogni tanto invece azzeccavi la bevuta. Ricordo che dieci anni fa si andava a Busalla, alla Fabbrica della Birra, uno dei primissimi microbirrifici (e l’unico di tutta la Liguria). Lì le birre erano buone, ma non so se avete idea di cosa possa essere scendere giù dai Giovi sulla A7 dopo aver bevuto tutta la sera… Un’altra volta assaggiai i prodotti della Lion di Sestri Levante ad una Fiera Primavera, e quelli di un qualche birrificio lombardo (proprio non mi ricordo quale) alla festa dell’Unità del 2004, e li trovai veramente ottimi.
Poi, ad un certo punto, anche nella birrignifuga Genova arrivò l’onda dei brewpub, qualche anno fa. Ma la qualità è stata a lungo incostante, e i pochi che alla fine hanno trovato la ricetta giusta proponevano le classiche tipologie “che non devono mancare mai in un pub”: una lager, una strong ale, una weizen e in genere una aromatizzata (pare che sia illegale non fare una birra alle castagne). Buone quando erano buone, ma alla lunga poco emozionanti.
Insomma, neanche questi assaggi mi convinsero a togliere il veto. Continuai nel mio personalissimo apartheid: con la solita perspicacia, proprio nel momento in cui qualcosa di interessante stava cominciando a muoversi.

Sono riemerso circa sei mesi fa, quando il publican di cui sopra ha talmente insistito che assaggiassi “questa birra straordinaria” che mi sono concesso. Epifania. Rimasi di sasso. Esistevano delle birre artigianali italiane buone, anzi, ottime, anzi, straordinarie!
E voi lo sapevate, o ero davvero l’unico pirla del pianeta?

In quest’ultimo periodo ho perso un po’ di tempo per informarmi, assaggiare, conoscere.
Grazie a internet è tutto più facile (ci fosse stata ai tempi del kit di Mr. Malt…), e c’è da dire che proprio questi ultimi mesi hanno visto persino a Genova affermarsi timidamente la distribuzione delle principali birre nostrali: è insomma più facile avvicinarvisi (il concetto di “vicinanza” è figurativo: il beershop più fornito è a Campomorone).
È un mondo nuovo e variegato, giovane ed entusiasta. C’è gente che s’incazza, che litiga per davvero se sia meglio il vino o la birra (qui, noi papilli ci posizioniamo in una pacifica neutralità epicurea, l’importante è bere bene), però ci sono anche persone e storie interessanti che alle manifestazioni è facile e bello farsi raccontare. E ci sono blog ben fatti e con tagli interessanti, come Cronache di Birra di Andrea Turco o Tyrser’s Tavern di Marco Pion, e non sono gli unici.

Insomma, tutta questa bella lenzuolata di palta con cui mi sono ricoperto era un necessario bagno di fango terapeutico per annunciare ai lettori papilli che nei prossimi mesi PapilleClandestine darà spazio anche alla birra artigianale.
Come facciamo da sempre, vi racconteremo soprattutto le nostre emozioni, lasciando le cose difficili a chi è ben più bravo di noi. Magari impareremo la differenza fra un luppolo amarillo e un cascade, ma senza stressarci troppo. Per cui, caro lettore che brassi da dieci anni e hai le spighe d’orzo tatuate sulle chiappe, ti ringraziamo per la stima ma non ti saremo un granché utili. Naviga verso altri lidi, e che lo spirito di Michael Jackson sia con te.
E invece tu, sì, tu, godereccio curioso che magari non sai cos’è il TeKu, seguici. Non si sa mai che ci scappi una bella bevuta.

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

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