La fiera del bue grasso di Carrù, ovvero perché Einstein aveva ragione

da | Dic 18, 2010

Non è vero che il tempo scorra sempre alla stessa velocità. Basta vedere certi visi, e certi cappelli, per capirlo. Basta andare alla fiera del bue grasso di Carrù, che quest’anno ha compiuto cento anni. Certi visi, e certi cappelli (e anche certi baffi), sono sicuro, sono quelli del 1910. Ovvio, tutto attorno è cambiato. Ma i buoi sono quelli, immani ammassi di carne dal candido manto. E le facce degli allevatori sono rosse e ispide, indurite dall’aria e dal sole, dal freddo e dal lavoro.

Come cento anni fa, probabilmente, quando il bue grasso era il trattore delle Langhe. Oggi pochi buoi sono adoperati in agricoltura (me ne ricordo uno, maestoso, dalle corna splendide, portato due anni fa in fiera, solo per esposizione, da un contadino di Acqui Terme). Ma il fascino arcaico di queste bestie rimane intatto. E si rinnova ogni anno, a Carrù, nel secondo giovedì antecedente il Natale.

Alla fiera bisogna venirci presto, prestissimo, molto prima che le luci dell’alba diano il benvenuto al giorno. Così si potranno seguire le operazioni che sono da preludio alla fiera: l’arrivo dei camion, la lenta e faticosa discesa delle bestie, la pesatura. Sono alti come uomini, i buoi, pesanti anche quattordici quintali. Ma chi li governa, insieme ad un’esperienza che non puoi che costruirti fin da bambino, ha in mano solo un bastone esile, di legno. Di fronte alla mole di un bue, cosa potrà essere una bacchettata? Come una carezza per noi umani, data con noia. Ma basta al bue per starsene quieto, inerme nei suoi quintali di carne grassa.

Sotto il cemento dello spazio espositivo, tra il fiato di uomini e bovini e un poco di protezione architettonica, la temperatura s’ingentilisce. Le bestie, pesate all’esterno tra cento occhi bramosi di chilogrammi, vengono legate, una vicina all’altra. A quelle più riottose – sono bestie che non han mai visto più di tre o quattro persone per volta, e ora sono in mezzo a una folla concupiscente- viene coperto lo sguardo con un pezzo di cartone, o stoffa, mentre i padroni cercano di farle belle, strigliandone il pelo, imbiancando le parti sporche con farina, borotalco bovino per fiere dove conta, anche, la bellezza. Ci sono categorie, tante (sedici per l’esattezza) e il profano non sa come districarsi, tra buoi grassi nostrani, migliorati e della coscia; manzi, vitelli e vitelle, torelli della coscia, manze grasse e tori con oltre sei denti. Serve un allevatore, per capirne il senso. E allora saprai che i buoi (e i manzi) sono nostrani, se della classica razza Fassone; della coscia, se presentano una muscolatura della groppa, della coscia e della natica molto più accentuata; o migliorati, se c’è stato un incrocio per ottenere determinate caratteristiche. Mentre la suddivisione tra vitello, manzo e bue dipende dal numero di denti (e di conseguenza dall’età, visto che, a partire dai 24 mesi, un bovino mette ogni anno una coppia di denti): il bue grasso (e la vacca grassa) ha otto denti, dunque almeno 5 anni.

E’ compito della giuria incaricata, la giuria fiera, valutare muscolatura, altezza, possenza, dentatura, mentre la gente intirizzita si riversa nei bar a bere caffè con grappa e brodo di bue bollente. Il tendone ristorazione, fin dal mattino presto, è in funzione, con il suo piatto unico di bollito a 15 euro, comprendente lingua, testina, scaramella, salamino, purè, bagnetto verde,  un pezzetto di robiola, una fetta di crostata, mentre il vino scorre libero, compreso nel prezzo, ed è dolcetto di Dogliani (della Cantina Clavesana) e puoi chiederne quanto ne vuoi, per scaldarti a dovere. La cosa migliore è andare a mangiare mentre la giuria valuta, attorno alle dieci, per tornare alla fiera giusto in tempo per la premiazione. C’è la coppa, col diploma, e la gualdrappa, vero simbolo di vittoria.

Ogni anno, a far man bassa dei premi più ambiti ci pensa un allevatore che ha un nome che è tutto un programma. Manzo Natale, si chiama: ha baffi scuri e cappello ben piantato in testa. Le bestie sfilano, per l’ultima volta, e non sanno che entro poche ore saranno carne pregiata macellata. “Questo bue lo allevo da sei anni, è una bella bestia, non ne ho avuto mai una pari a lui. Mi spiace oggi portarlo a macellare. Ma cosa posso fare? Sono allevatore, e nella vita non ho fatto altro” mi ha detto due anni fa un allevatore dallo sguardo triste, triste per davvero.

La gente si stringe attorno, le ammira, le sfiora, le apprezza il didietro manco fossero signore. Stanno lì, le bestie, con indicibile pazienza, fino a quando non è l’ora di risalire sul camion. Si fanno largo tra la folla, mentre i padroni armeggiano con i bastoni e sbiascicano dei tensiun d’avviso. E poi s’impuntano, salgono, e partono. E allora attacca la banda, a suonare, e la gente riprende a girare, ancora un poco, per il paese che ha come eroe il bue, tra le bancarelle, nei ristoranti e nelle macellerie. Con gli stessi cappelli di cento anni fa. Aveva ragione, Einstein, a sostenere che il tempo è relativo.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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