Di Dolceacqua, della Val Nervia, sulla michetta e una bandiera arancione

da | Ott 22, 2013

Per raccontare di Dolceacqua – e, più in generale, della Val Nervia – si può partire da molteplici spunti. Dolceacqua è un borgo incantevole – vissuto, vivo, ben tenuto, senza però addosso quella patina fastidiosa da “cartolina” a ogni costo. I suoi prodotti e la sua cucina sono eccellenti: dà nome al vino rosso più importante della Liguria; l’olio extravergine da cultivar taggiasca è il più delicato – o tra i più delicati – dell’Italia intera; la vallata offre verdure e legumi eccezionali e una cucina che qui, e solo qui, trova le sue radici. Il clima è adatto al clavicembalo: ben temperato.

Ma per cominciare il racconto, per cercare un nesso con la storia, una sintesi del luogo, ha senso partire dalla Michetta, il dolce simbolo del paese (dal 2008 ha anche la De.Co., la denominazione comunale): una pasta lievitata a base di farina, lievito di birra, uova, zucchero e olio extravergine, preparata dai forni locali, da consumare nella sua freschezza.

La michetta è la protagonista di una leggenda, o forse di una storia, o forse di tutte e due, ambientata nel XIV secolo. Ai tempi a dominare il borgo era il più perfido dei Doria, il Marchese Imperiale, detto “Il Tiranno”, che, tra una guerra ai paesi vicini e l’altra, trovò anche il tempo, e il piacere, di promulgare lo ius primae noctis. Una giovane del paese, Lucrezia, si rifiutò però di cedere a quell’amor profano, finendo per morire di sete e fame nelle segrete del castello. Lo sposo della giovane, un certo Basso, sgattaiolato di notte nel castello e arrivato fino alla stanza del marchese, non potendo più salvare la vita alla consorte, costrinse almeno il marchese a firmare l’abolizione del jus. L’indomani allora, le donne del paese realizzarono un dolce in ricordo di Lucrezia: nacque così la michetta, dalla forma allusiva del sesso femminile, e il detto che la accompagna: “Omi, au, la michetta a damu a chi vuremu nui” (“uomini, adesso la michetta la diamo a chi vogliamo noi”).

Chissà se qualche abitante della téra, ovvero il mantello di case che scende dal castello dei Doria (Dolceacqua è divisa in due dal torrente Nervia: da una parte s’inerpica la téra, dall’altra si stende il Borgo) pensò bene di offrirne un paio a Monet, quando, transitando nella valle, rimase incantato dal paese e dal ponte (“un gioiello di leggerezza”) tanto da farne soggetto per tre suoi quadri.
E chissà se i tanti turisti che passano di qui riescono ad apprezzare l’essenzialità di un dolce così semplice.

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Dolceacqua è è la porta d’ingresso della Val Nervia.
Ha la bandiera arancione del Touring Club Italiano, ovvero il marchio di qualità turistico ambientale destinato alle piccole località dell’entroterra che si distinguono per un’offerta eccellente e un’accoglienza di qualità, ed è sede nazionale dell’Associazione dei Paesi Bandiera Arancione. Noi papilli ci siamo ritornati proprio in occasione della giornata delle bandiere arancioni. Abbiamo trovato una giornata sbocciata grigia e chiusa col sole; e un bus venuto apposta dalla Lombardia, un altro dalla Sardegna, e poi nel pomeriggio dalla Francia. E anche una guida messa a disposizione dal Comune (Ilaria, della Cooperativa Omnia). Abbiamo girovagato tra i vicoli angusti, scoperto la chiesa di San Giorgio, all’ingresso del paese, che custodisce nella cripta le tombe di Stefano Doria (1580) e di Giulio Doria (1608) e l’oratorio di San Sebastiano, nel Borgo, in cui si può ammirare una scultura lignea attribuita al Maragliano. Siamo saliti al Castello, e poi ridiscesi al livello del torrente, dove ci sono enoteche, forni, ristoranti, un frantoio, cantine. Insomma, un paese da vivere, e che vive di vita propria; un paese accogliente, ricco di spunti da raccogliere. Esattamente come ci si aspetta da un borgo bandiera arancione.

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E poi c’è la Val Nervia.
Camporosso, con la sua chiesa romanica di San Pietro, ne è la porta.
Dopo Dolceacqua, ecco Rocchetta Nervina.
E poi Isolabona, e sopra il borgo medievale fortificato di Apricale, con il castello della Lucertola.
Pigna, con le terme e la chiesa di San Michele Arcangelo, dove ammirare l’imponente polittico di Giovanni Canavesio, del 1500. E Castelvittorio, arroccato nella collina.
A dominare uomini e natura, a 900 metri d’altezza, s’erge infine Bajardo, che offre una spettacolare vista delle Alpi liguri e marittime.

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Da assaggiare? Segnatevi questi nomi. Partiamo dalle cantine, per un giro di Rossese. A Dolceacqua da non perdere Terre Bianche (tel. 018431426), Dallorto Luca (tel. 0184206850) e il mitico Perrino Testalonga (tel. 0184206267) che ha una minuscola cantina nel cuore del Borgo.
Per l’olio, ad Apricale c’è l’azienda agricola Gamba Patrizio (tel. 3391262157), mentre a Isolabona c’è Paolo Cassini (tel. 0184208159).

Tra i prodotti, immancabili i fagioli di Pigna, bianchi, dalla buccia sottilissima che, nelle lunghe cotture, si sfalda fino a scomparire. E poi i negozi. A Dolceacqua, l’Alimentari Francesca (salita San Sebastiano, 8), dove acquistare la michetta (o la crocetta, versione moderna arricchita di burro) e la torta tacunà (di pasta frolla con marmellata di albicocche) e l’Enoteca Re (via Patrioti Martiri, 21) dove non si trovano solo i migliori Rossese, ma un panorama profondo del meglio del vino italiano. A Pigna, nell’Alimentari La Posta (via San Rocco, 60), si accquistano fagioli di Pigna e altri prodotti della vallata.

E per mangiare? Cinque locali eccellenti: a Dolceacqua l’Osteria dell’Acqua dolce (via Patrioti Martiri, 33 • cell. 3203339444) per il coniglio al Rossese con patate vestite. A Isolabona, sosta gradevolissima alla Molinella (loc. Molinella – via Roma, 60 – tel. 0184208163). Ad Apricale, c’è il grande Delio (piazza Vittorio Veneto, 9 • tel. 0184208008) per la migliore capra e fagioli della vostra vita (nella foto, in alto a destra); oppure La Capanna di Bacì (e la strana storia del camufalo). A Castelvittorio, nel cuore del paese, ecco l’Osteria del Portico (via Umberto I, 6 • tel. 0184241352), semplicissima trattoria con dove assaggiare il Turtun (nella foto, in basso a destra), torta di verdure cotta nel forno a legna che racchiude sapienza antica e profumi di Liguria.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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