Per una filosofia della bontà relativa (oggi spariamo alto)

da | Giu 28, 2011

Non so voi, ma tutte le volte che mi trovo a dire che un vino o un cibo è buono, mi sento un po’ in colpa: dovrei aggiungere qualcosa? Possibilmente qualcosa di intelligente e di tecnico, tipo “abbastanza tannico” o “un po’ sciapo”? Ma poi mi dico, no, se è buono e buono, punto. A patto però che tutto non lo sia indistintamente.
Gli avverbi ci vengono in aiuto: c’è il molto buono, il piuttosto, l’abbastanza, il davvero. Nel parlato contano anche smorfie, tempi e mugolii. “Mmm (pausa) buono (faccia sorpresa)” è chiaramente diverso da “(sguardo assente) buo-o-no (tono concessivo)”.

Già ma quanto diverso? Ovvero cosa ci fa dire in sequenza che tre piatti diversi sono uno buono, l’altro molto buono, e il terzo abbastanza buono? Piatti (o vini, o tante altre cose) che sono sempre il frutto del lavoro di qualcuno e che come tali meritano una valutazione con la massima onestà intellettuale.
Esistono già diversi criteri che si vogliono oggettivi. I centesimi, i ventesimi, eccetera. Un po’ come i voti a scuola. (Ora, non so voi, ma io tutte le volte che a scuola mi davano un voto pensavo sempre che fosse sbagliato) (ovviamente, perché era troppo basso). Comunque, senza entrare nel merito, diciamo che esistono e fine, non ci interessano qui.

La domanda è: c’è invece un modo per rendere scientifico il relativismo di un giudizio personale? Non oggettivo, attenzione, scientifico: cioè che segua un suo rigore metodologico. In sintesi, per quei tre piatti abbiamo usato gli avverbi in maniera corretta?

Proviamoci. Partiamo dalla base. E la base è che una cosa è buona se ci piace, punto. Ti piace il Tavernello? Ti piace il Rustichella? La Corona? Non saremo amici, ma va bene: ti piace, quindi è “buono”.
Ora però proviamo mettere in scala questo giudizio. E diciamo che equivale al famoso sei politico: se una cosa mi piace è già di per sé sufficiente, ma come faccio a darle davvero un bel voto, ad arrivare a dieci?
Aggiungendo altri criteri.

Buono perché è espressione di una (bella) storia.
Exemplum. Lo scorso Vinitaly abbiamo assaggiato il prosecco “col fondo” di Bele Casel, un vino torbido alla vista ma straordinario appena si cominciano a usare gli altri sensi. Uno dice, va bene, ma perché non me lo fai limpido come gli altri? Perché c’è una storia dietro. Una storia di prosecchi contadini che un tempo si facevano così: poi è arrivato il prosecco bello all’occhio e il diktat commerciale ha letteralmente cancellato il vino storico.
Oggi chi recupera il prosecco col fondo fa un gesto coraggioso, perché si autocondanna alla perplessità iniziale di chi è abituato a bere limpido, e perché recupera un patrimonio di saperi e abitudini altrimenti scomparso. E io, sapendolo, trovo che un vino con questa storia sia “più buono”.

Buono perché è un archetipo.
Exemplum. Domenica scorsa mi sono stappato una Augustiner Pils. Sarà stata la giornata di sole, la calma del pranzo domenicale, le salsicce che cuocevano sul barbecue, ma il mio karma ha fatto dlin-dlon e ho goduto come un riccio ad ogni sorso. Annaspavo alla ricerca di parole per esprimere la bontà di questa birra, ma non ne trovavo: era fresca il giusto, maltata il giusto, luppolata il giusto, carbonata il giusto. Insomma, era perfetta nella sua semplicità. Ma anche la semplicità può essere difficile: in una parola, era esattamente quello che mi potevo attendere da una ottima pils.

Buono perché rinnova e ricerca.
Exemplum. Facciamo che vado a mangiare da Bottura. Facciamo che fra i tanti fantasmogorici piatti che facciamo che non ho problemi a pagare, ci sia anche (un piatto assolutamente a caso) lo Sgombro in gelatina in salsa di agrumi. Che è una cosa incredibile con tanto di ghiaccio allo zenzero e brodo agrumato: inesistente prima che venisse creato dal divin Bottura e irriproducibile da noi cuochi della domenica. Facciamo che a me piaccia. E però a questo punto io devo onorare la novità, la ricerca e la fatica che sta dietro la creazione di una cotale originale ricetta: ecco allora che posso dire che questo piatto è più buono rispetto ad altri.

Buono perché fatto “come si deve”.
Exemplum. Qui si abbonda, dalle tagliatella della nonna al salame del contadino. Ma prendiamo un Negroni. Un cocktail di una semplicità disarmante, eppure vi sfido di andarlo a prendere a Genova da Bolla o a Firenze da Luca Picchi del Rivoire (cito i due migliori che abbia – per ora – mai bevuto), eppoi di prenderlo in un qualsiasi altro posto. Capirete che anche le cose facili vanno fatte come dio comanda, e che la differenza c’è.

Buono perché lo dice tizio.
Exemplum. Qui sta tutto nello scegliere la qualità del tizio in questione. Perché è inutile, ci sarà sempre qualcuno che in qualche campo ne capisce più di noi. Voce del verbo “capire”, cioè addentrarsi nei misteri della materia cogliendo sfumature e collegamenti che a te sfuggono. Se ad esempio dovessi mangiare accanto a Stefano Caffarri e dopo aver attaccato un piatto lo trovassi buono normale mentre lui va in estasi, mi obbligherei a resettare il mio giudizio e a riprovare l’assaggio, che magari se la cerco meglio l’estasi mi appare.

A voi vengono in mente altri criteri?

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

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