Mangiare è un atto agricolo, politico, culturale. Oppure, dell’acqua cotta in Maremma

da | Set 23, 2011

Mangiare è un atto agricolo. Ed ecologico. Lo ha spiegato bene Wendell Berry.

“Mangiare conclude il dramma annuale dell’economia alimentare che inizia con la semina e la nascita. Molti mangiatori non sanno più che questo è vero. Pensano all’alimentazione come produzione agricola, forse, ma non si considerano parte dell’agricoltura. Si considerano “consumatori”. Se pensano un po’ più a fondo, devono riconoscere di essere consumatori passivi”.

E mangiare è un atto politico, come ci ricorda Carlin Petrini.

“Il piacere è democratico, deve essere democratico, perché la sua ricerca, se responsabile, ci permette di leggere la realtà con il riacuirsi dei nostri sensi e del nostro intelletto. Il piacere è democratico perché ci invoglia a tornare protagonisti, anche soltanto grazie a piccoli atti importanti per migliorare questa nostra vita. E il piacere alimentare è quello potenzialmente più immediato e alla portata di tutti: mangiare, e con piacere, può essere un atto politico dirompente. Il piacere non è elitario, è un diritto, e va tutelato promuovendolo, conoscendolo, rendendolo davvero alla portata di tutti. Per mangiare il cibo e non esserne mangiati”.

Quel che dicono Wendell Berry e Carlin Petrini è condensato in quest’ultima frase: per mangiare il cibo e non essere mangiati.

E allora, mangiare è (può essere) [deve essere] anche un atto culturale. Che ci rende consapevoli. E’ un modo concreto, il modo più concreto che abbiamo a disposizione per conservare, riprodurre e trasmettere la cultura di un popolo e della sua terra. E non parlo solo della cultura gastronomica. La produzione del cibo è strettamente legata al luogo, alla sua geografia, alle condizioni climatiche, alle condizioni di sviluppo sociale, alle regole sociali e religiose predominanti. Le scelte (o non-scelte) alimentari sono fortemente condizionate da una serie di fattori che superano l’imperativo del gusto. Le stesse modalità nel consumare i cibi, i tempi, i luoghi, dipendono dalla società in cui si è immersi, dalla vita che facciamo.

“Prendiamo una tipica fascia ligure, un fazzoletto di terra dove a fatica si coltivano un po’ di basilico e due teste d’aglio, magari sotto un ulivo: ecco nato il pesto”.

Questa frase condensa in due righe -e una ricetta- quanto la cucina sia conseguenza del territorio. L’ho raccolta da Gianni Carbone, l’anziano patron della Manuelina, ristorante di Recco. La salsa più amata dai genovesi nasce lì, in quei pochi metri quadrati di una fascia agricola tenuta assieme da due fila di muretti a secco,  dove contadini di ogni epoca si sono arcuati e hanno sudato per tirare fuori tutto l’estraibile. Poi, l’esperienza delle cuoche e l’influenza dei commerci ha arricchito la ricetta con pochi altri ingredienti: qualche pinolo, l’ovvio sale grosso e il formaggio, pecorino e parmigiano.

E quanto una ricetta sia fotografia di un luogo, delle sue genti e della loro cultura è ben raccontato nell’intervento di Pietro Citati sul Corriere della Sera del 29 agosto scorso. Citati racconta l’acqua cotta, piatto povero della Maremma.

“Fino a sessant’anni fa, la Maremma era una regione povera: talvolta poverissima. La festa del cibo avveniva a dicembre o a gennaio, quando si uccideva il maiale: era una specie di raptus dionisiaco, ma spesso un solo maiale apparteneva a più famiglie e doveva durare per un anno intero. Il simbolo della civiltà culinaria maremmana era invece una specie di minestra, che aveva un nome bellissimo: l’acqua cotta. Era il cibo dei poveri: non costava quasi niente: veniva fatta d’avanzi e di erbe trovate nei prati; e il suo suono giocoso faceva capire che non si trattava nemmeno di un cibo, ma di uno scherzo con l’acqua del mondo.
La massaia preparava il pane una volta la settimana: lo custodiva in una grande madia; e, alla fine della settimana, il pane era secco, quasi raffermo. La mattina del settimo giorno la massaia raccoglieva le verdure e le erbe: soprattutto cipolla, sedano, radicchio di campo. Un poco d’olio li inumidiva. Poi c’era l’uovo: non costava molto, giacché qualche gallina razzolava sempre nell’orto dietro casa; eppure un uovo doveva bastare per sei porzioni. A questo punto, la massaia impugnava la padella, e soffriggeva la cipolla, il sedano e il radicchio. Pomodoro e acqua riempivano la padella fino all’orlo. Sotto la sorveglianza degli occhi svagati delle ragazze di casa, tutto bolliva e ribolliva per circa un’ora. Restava un ultimo gesto. La massaia tagliava meticolosamente il pane secco o raffermo in fette sottili: le disponeva nella zuppiera; e rovesciava cipolla, sedano, radicchio di campo, sale, pomodoro, acqua caldissima sopra le magre fette di pane.
Raccomando l’acqua cotta a tutti coloro che coltivino le infinite forme della minestra. Non ne conosco una migliore: il giorno dopo, o due giorni dopo, è ancora più umida, sottile e profumata”.

Come per il pesto, l’acqua cotta nasce  in confini ben precisi, nel territorio compreso tra l’aia e l’orto di un podere maremmano. E’ una sorta di imposizione della terra, ma quei pochi ingredienti poveri danno luogo a qualcosa che va oltre gli ingredienti iniziali. E quell’oltre racchiude tutta la cultura e l’ingegno di uomini e donne che hanno saputo sublimare i prodotti in loro possesso per ottenere un piatto buono e salutare. Un piatto che rappresenta un atto agricolo, politico e culturale.

Aggiungo alcune considerazioni di Aimo Moroni, riguardo questo piatto.

“Se devo citare un piatto maremmano, penso all’acqua cotta, alla sua essenzialità, che non rinnega il gusto, anzi, lo esalta. E’ una bontà che non fa solo bene al palato, ma anche alla salute. La semplicità di acqua, uova, verdure, pecorino, pane raffermo: non c’è nulla di meglio, e credo che chiunque si metta dietro ai fornelli dovrebbe partire da piatti come questi, che trovi poi in ogni regione italiana, perché qui c’è la storia dell’Italia, non solo gastronomica. Se dimentichi una pasta con le sarde siciliane, dimentichi Pirandello. Se a Milano non fai il risotto alla milanese con l’ossobuco equivale a dire che il Manzoni è uno scribacchino. Dimenticarsi l’acqua cotta, in Maremma, significa rinnegare la sua storia”.

Riporto la ricetta dell’acqua cotta tratta da “Le ricette Regionali Italiane” (Casa Editrice Solares, 1967) di Anna Gosetti della Salda. Si tratta di una versione ricca, con i funghi porcini e meno verdure, codificata nei favolosi anni ’60 del secolo scorso. A suo modo, fotografa un’epoca e la sua cultura.

Dosi per 4 persone

funghi porcini grammi 500 • pomidori gr 200 • olio d’olio d’oliva • uno spicchio d’aglio • 3 uova • parmigiano grattuggiato • 8 fettine di pane raffermo • sale • pepe

Pulire accuratamente i funghi, raschiare i gambi per togliere la terra poi lavarli bene e affettarli. Porre sul fuoco una casseruola con tre cucchiaiate di olio e l’aglio, lasciare rosolare e quando l’aglio sarà colorito mettervi i funghi. Salarli leggermente e peparli. Pelare i pomidori e tritarli, poi aggiungerli ai funghi quando questi saranno a metà cottura. Versarvi sopra un litro d’acqua bollente salata e proseguire la cottura. Abbrustolire il pane nel forno e metterne due fettine nel piatto di ogni commensale. Rompere nella zuppiera della minestra due uova, unire due cucchiaiate di parmigiano, sbatterle con una forchetta, versarvi sopra il brodo, quindi mescolare e servire.

P.S: Parlando di Maremma, un consiglio per il weekend: da sabato 24 a lunedì 26 settembre a Grosseto (località Braccagni) si svolge Maremma Food Shire, con un centinaio di produttori locali (tanti oli, formaggi, salumi e vini), momenti di approfondimento (con la partecipazione anche di Paolo Massobrio) e assaggi di piatti, dall’acqua cotta, alla zuppa di pesce, ai tortelli maremmani.

P.S: Questo post è una bozza on-line. Seguiranno mutamenti.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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