Domenica di Pasqua, interno giorno.
Scarto il sacchetto del macellaio e alle ore 9.30 ho già la netta impressione che qualcosa andrà storto. Il carrè di agnello è chiaramente troppo piccolo. Inoltre non è lavorato, mi devo mettere a tagliare e sfilettare per dargli un aspetto accettabile. Tutto questo perché venerdì è stata una giornata incasinata e a far la spesa è andato chi poi non avrebbe cucinato, comprando inevitabilmente alla cieca.
Non tutto è perduto. Le mie costine d’agnello cotte sottovuoto con crosta d’erbe spaccheranno uguale. Il cellulare è carico e potrò così fotografare i vari passaggi per poi scriverci un post. Fotografare con piedistallo e macchina fotografica è impossibile, avrei dovuto prepararmi pile, luci, aggeggi, e francamente era meglio far colazione, anche perché fra pochissimo bisogna uscire.
Al lavoro.
Mentre ripulisco il pezzo sento lo scalpiccio del secondogenito. Che infatti mi si intrufola sotto il braccio mentre brandisco il coltellaccio, additando la carne: “tu ciccia?”. Sì, papà prepara la ciccia, ora togli quel dito che come vedi sto tagliando ed è pericoloso. “Tu ciccia?”, ancora il ditino. Sì, papà eccetera. “Ciccia, tuuu?”.
Niente, termino rapidamente il lavoro per evitare amputazioni pediatriche, sigillo la carne nel sottovuoto e metto in temperatura il roner.
Un secondo dopo aver tuffato il sacchetto mi rendo conto di essermi dimenticato di salare. No, merda, non solo, ho dimenticato anche di passare in padella la carne per dorarla e darle la botta umami della reazione di Maillard.
Potrei disfare il sacchetto e correggere, ma echeggiano già le urla del primogenito che invoca “bici! bici!”. Fuori c’è quasi il sole, è Pasqua, che il roner si sfanculi.
Setto la cottura a due ore. Dovrebbe essere 45′ ma fra tre quarti d’ora non saremo sicuramente tornati, e secondo una mia teoria fisica elaborata lì per lì non si dovrebbe “scuocere”, visto che la temperatura è impostata al decimo di grado. In fisica avevo 5 fisso, ma non ho scelta.
Segue: trasporto verso la macchina con due bambini, rapido viaggio fino al parco, mezz’ora di bici e rientr… DRIN! Cellulare. È la nonna. C’è da andare a prendere la pasqualina e la pastiera da lei, che pesano troppo.
Programma modificato in corsa: sgancio famiglia sotto casa, ri-macchina e recupero nonna e relativi allegati mangerecci, rientro a casa. Ora non solo sono in ritardo, ma c’è anche la nonna in anticipo che aizza le piccole belve. Ciò in genere causa due effetti: prima c’è un aumento di eccitazione – gestibile – poi iniziano a darsele di santa ragione – richiedendo ogni tre minuti l’intervento di uno dei genitori, preferibilmente il vocione dell’autorità paterna, che sarei io che starei cucinando.
Spengo il roner e scarto l’agnello. Cotto. Molto cotto. Direi proprio troppo cotto. La mia teoria fisica ha miseramente fallito. Sento riecheggiare la domanda con cui la professoressa Mana mi segò a settembre, proprio in fisica (“Come fa un inglese con ombrello e bombetta a muoversi nello spazio?”. Risposta, lancia l’ombrello, terza legge della dinamica, ad ogni azione corrisponde una reazione eccetera. Mia risposta: boh. Grazie e arrivederci).
Cancello la Mana dicendomi che tanto la moglie la carne la vuole ben cotta.
Preparo il trito di aromi. Dovrei ricoprire la carne e metterla a far la crosticina sotto il grill. Guardo il rosmarino annerito e la salvia rinsecchita che mi ha dato il fruttivendolo: non credo che la mia crosta d’erbe potrà mai avere un bel colorito verde.
Potrei scendere e comprarne altra dal fruttivendolo marocchino. Vado? Non vado?
“C’è il sole. Mangiamo fuori, sparecchiamo e riapparecchiamo”. Non vado, c’è appunto da rifare tavola.
Risistemata tavola, minacciato i figli di deportazione se continuano a litigare per il triciclo, torno alle mie erbe. Trito, cospargo, inforno. Dovrei rigirare il tutto in modo da dorare uniformemente, ma gli altri sono già a tavola e mi reclamano.
Dopo l’aperitivo, sforno il tutto prima che si bruci e impiatto.
QUI, proprio in QUESTO ATTIMO avevo previsto di fare una foto alle bellissime costine rosse, attraenti, con la crosta verde in risalto in un bel piatto bianco. Niente di più lontano dal risultato impresentabile e infotografabile ottenuto.
E proprio QUI, in QUESTO ATTIMO, sull’orlo di una crisi di nervi, mi sgorga dal profondo una domanda:
Ma i foodblogger che amano adornare le loro ricette con attraenti ed immote foto di intonse impiattature, scegliendo la tovaglia che faccia pendant col sugo del cibo, e che si mettono di sbieco a controllare che non ci siano riflessi, e che poi magari rismontano il set tre volte cambiando tovaglia e posate, e che probabilmente quello che hanno fotografato lo mangiano freddo sempre che lo mangino, ecco, loro: CE L’HANNO UNA VITA?