Devo intervistare un cuoco, famoso, campano. Provo a chiamare al ristorante una, due, quattro volte. “Mi spiace, oggi lo chef non c’è. Riprovi tra un paio di giorni”. Al quinto tentativo, finalmente, l’epifania della spiegazione: “Sa, è a Milano per la trasmissione di Signorini, e ci resterà ancora tutta questa settimana e probabilmente metà della prossima”.
Dalla prima telefonata sono passati già dieci giorni, ai quali aggiungerne altri sei o sette. Ripenso allora a quello che Gianluigi Morini, patron del San Domenico di Imola, ha detto a Fabio Molinari: “Il mio ristorante è la mia casa e i miei clienti, quando entrano qui, sanno che mi incontreranno”. Certo, Gianluigi Morini non è lo chef del San Domenico. Ne è però la figura carismatica, la bussola. Esattamente come i cuochi famosi per cui persone si muovono, superano confini regionali, si sobbarcano chilometri di asfalto, risparmiano quattrini, pur di andare al loro desco. E magari vorrebbero anche trovarli, quei cuochi, nel loro ristorante. Invece il cuoco famoso, oggi, è peggio di Ulisse, sbatacchiato qua e là non da marosi e guerre, ma da eventi, feste promozioni, catering, pubblicità, impegni televisivi.
So che questi “impegni collaterali” sono quelli che permettono loro di mantenere la baracca, perché, da solo, un ristorante di alto livello spesso fatica a fare quadrare i bilanci (e già questo non è sintomatico di un sistema che non funziona, di una filosofia sbagliata?). Intuisco che possa fare più utili un Rossopomodoro ben avviato piuttosto che una tavola da 100 euro a botta. E so anche che, probabilmente (ma è davvero così?), la presenza o meno del grande chef nel suo ristorante non cambi di una virgola il risultato finale dei piatti presentati.
Però, vuoi mettere, il piacere che “il mio ristorante è la mia casa e i miei clienti, quando entrano qui, sanno che mi incontreranno“. Anche perché, al momento della prenotazione, non succede mai che ti dicano: “Guardi, noi quel giorno siamo aperti, ma vorrei avvisarla che lo chef non sarà presente per impegni personali“. Sarebbe già un passo avanti.
Qui non parliamo di Ducasse, che ha quasi 30 ristoranti sparsi tra la Francia e il resto del mondo, dove il cliente sa bene che assai difficilmente potrà incontrarlo di persona e scambiarci due parole a fine pasto. Qui parliamo di ristoranti che sono una cosa unica con il cuoco, spesso anche proprietario.
Si è creato un gran bel paradosso. Gli chef sono sempre più osannati, sono le star del terzo millennio, ma in realtà, con le frequenti assenze dal proprio locale, fanno intendere e testimoniano che la loro presenza è solo un quid in più, e null’altro. E allora, perché non esplicitarlo in maniera più sincera? Perché non dire, apertamente, che il lavoro del cuoco consiste nella creazione del piatto e nello stilare un inesorabile protocollo di preparazione? Che la manualità nella ripetizione di una ricetta codificata non spetta più a loro?
E poi, via, basta con le interviste in cui si parla “di controllo quotidiano delle materie prime” e di “acquisti personali al mercato“. E’ una poesia, un’immagine che risuona spesso, ma che fa a pugni con la realtà. Se il mio ristorante è in Lombardia, e io sono a Vico, ad esempio, come posso controllare personalmente le materie prime che arriveranno in tavola quel giorno nel mio ristorante, comunque aperto, anche senza la mia presenza?
Per fortuna conosco molti cuochi che, al contrario, sono più restii ad abbandonare il locale. Che continuano a sporcarsi le mani in cucina perché quello è il loro lavoro e la loro passione. E allora, diciamolo: i cuochi in tv hanno scassato le palle. Noi vogliamo incontrarli al ristorante e assaggiare i piatti cucinati da loro.
Altrimenti, che si faccia chiarezza.
Lo chef non c’è? Applichiamo uno sconto sul conto finale.
Oppure. Il ristorante di alta cucina è solo il lussuoso biglietto da visita che permette a molti di fare i denari con più redditizi lavori? Allora riduciamone drasticamente i prezzi, concedendo ad un pubblico più vasto l’esperienza culturale di un certo tipo di ristorazione. Tanto poi si campa di tv (e pubblicità, e consulenze).
P.S: Uno dei cuochi protagonisti della trasmissione di Signorini, un paio di anni fa, mi ha detto: “Il mio compito non è cucinare. Io non entro nemmeno in cucina. Io penso i piatti, e poi dirigo la brigata“. Che tristezza, questa frase, soprattutto perché pronunciata non da un vecchio nome sulla via della pensione, ma da un giovane, famoso, mediatico chef che ha ancora da giocarsi trent’anni di carriera.
Essere cuochi a questa maniera è come dire che Fabrizio Corona è un fotografo.