Benedetta flessibilità

da | Gen 16, 2012

Sguazzando nei luoghi comuni è proverbiale che i genovesi, in simbiotico rapporto con gli scozzesi e Zio Paperone, siano proprio tirchi. Da genoano, mi pare che più che di tirchieria si tratti di riserbo, di una sottile voluttà a non ostentare. Non sempre è un male, non sempre è un bene.
Certo è un male quando questa riservatezza si evidenzia, più che nell’atto di estrarre il portafogli, nel contenere all’eccesso gesti di umana simpatia e benevolenza.  Mi spiego meglio.

Vengo da qualche giorno passato a Venezia. Più di una volta mi è capitato di estrarre dalle tasche la cartina per districarmi tra calle e campi. Più di una volta, in maniera spontanea, gente del posto si è avvicinata chiedendomi se avevo bisogno di un’indicazione, e qualcuno mi ha anche accompagnato per dei tratti di strada. Riporto la stessa situazione su Genova, e mi viene da sorridere. Una coppia di turisti ha la cartina in mano, nel mezzo di piazza De Ferrari, e il più che possono aspettarsi è una generosa indifferenza.

Un semplice episodio, che fa riflettere su quanto la vocazione turistica di un posto sia frutto non solo della capacità politica, culturale e imprenditoriale di conservare, promuovere e facilitare la fruizione del proprio patrimonio, ma anche di un moto dal basso, che è l’accoglienza del singolo cittadino, orgoglioso della sua città.
Questa dote tanto più dovrebbe far parte del corredo genetico di chi lavora in locali pubblici e strutture ricettive. Non sempre è così. E se a Genova abbiamo la pizzeria Leo, con la sua inflessibilità quasi zen, oppure la trattoria che, alla mia richiesta di pranzare alle 12,30 di sabato mi risponde: “Non può fare per le 12, che alle 12,30 c’è troppa confusione e le 13 è veramente troppo tardi?” a Venezia mi è invece capitato di cenare in un’osteria (segnalata da Slow Food) che fa della flessibilità il suo punto forte.

Flessibilità sul vino, sul menu, sulle porzioni, sul servizio. Cominciamo dal vino: si può scegliere  la bottiglia, oppure la mescita al bicchiere, o ancora, come è capitato a me, una mezza bottiglia aperta al banco, con questa spiegazione: “Questa bottiglia, se la bevi tutta, è sei euro. Se rimane del vino, lo scalo dalla cifra”. Per Teresa, tre anni compiuti sabato, hanno fatto una variazione in menu sul primo, condendo la pasta con un sugo di carne tratto dai secondi. Le porzioni (possibilità segnalata non in carta, ma espressa a voce) potevano essere anche ridotte o in versione extralarge.  Osservata spontaneamente la passione di Teresa per la polenta che accompagnava il mio ossobuco in tecia, si sono offerti di di portare un piattino di polenta col sugo, e visto che Teresa la preferisca semplice (scondita) hanno solo aggiunto un filo d’olio e un poco di formaggio. E ancora, quando abbiamo ordinato (io un antipasto e un secondo, linda e Teresa un primo a testa), la cameriera (e titolare, credo) della trattoria ha pensato bene di portare a me l’antipasto e a Teresa il primo, in modo che Linda potesse seguirla, per poi gustarsi in tranquillità il suo primo portato assieme al mio secondo (e intanto, zac, la polenta di rinforzo teneva le fauci di Teresa impegnate).

Insomma, il massimo della flessibilità, ma anche la premura nell’osservare le esigenze del cliente, cercando di farlo star bene.
Alla fine, in un locale dove abbiamo mangiato bene, ma a un prezzo non da vera trattoria (45 euro a testa, vini esclusi), questa cura è il plus che ti fa uscire con il sorriso. Perché le attenzioni sono importanti, e quel che accade attorno al piatto non è mai semplice contorno.

Accoglienza e flessibilità: impariamolo a Genova, va.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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