Scienza in cucina: perché un po’ di metodo non guasta mai, anche a tavola. Intervista a Dario Bressanini

da | Set 17, 2013

Lui è  un chimico. Di mestiere fa il ricercatore. Ma è anche un blogger e uno scrittore. Per passione cucina e ne scrive. Poi mescola tutto. Il risultato è che Dario Bressanini da Saronno è uno dei divulgatori italiani preferiti dal Clan Papille. Perdiamo intere giornate a leggere i suoi post di Scienza in cucina, assolutamente i più lunghi del mondo (ma è perdonato, per la scienza questo ed altro), e giornate di ferie per star dietro ai commenti che li seguono.

Da amante di esperimenti e di molecole, ce l’ha su con i trucchi più furbi del marketing e della comunicazione che affollano il mondo enogastronomico. Ci ha scritto due libri – Pane e bugie e il sequel uscito di recente Le bugie nel carrello, entrambi editi da Chiarelettere – in cui se la prende con chi usa parole tipo “chimica” o “natura” a sproposito, contro le banalizzazioni legate al dibattito sugli OGM, con chi demonizza gli elementi della tavola periodica senza motivo, contro le “superstizioni” del nostro tempo. Ne Le bugie nel carrello, per esempio, dedica un capitolo spietato alla biodinamica e al suo inventore Rudolf Steiner,  con buona pace del cornoletame e delle energie spirituali della terra. Anche le patate “intelligenti” al selenio e il miracoloso kamut nel suo libro non superano la prova della scienza e paiono più azzeccati prodotti del marketing.  Nel blog riprende molti di questi temi.

In questa intervista ci racconta come è nata la sua passione per lo spignattamento, cosa guarda quando fa la spesa, perché non lo invitano spesso agli happening eno/food (con sua soddisfazione) e perché bisogna sì saper quello che si compra al mercato, ma non allarmarsi alla prima formula o nome di composto chimico. E ci spiega anche come fare i cristalli in casa nostra, casomai voleste provarci.

[quote_box_left]Quando e come hai scoperto la passione per la cucina?[/quote_box_left]
«Quando, da studente di dottorato, ho passato un anno all’Università di Berkeley in California. Non volevo mangiare tutti i giorni alla caffetteria dell’Università o nei vari locali e quindi ho deciso che dovevo imparare a cucinare. Mia mamma mi spediva le sue ricette per lettera (l’E-mail non era ancora diffusa) e così ho imparato a preparare il ragù, il coniglio arrosto e così via. Portavo quello che cucinavo in dipartimento per il pranzo e facevo assaggiare le cose che cucinavo ai miei amici, che apprezzavano molto».

[quote_box_left]Che rapporto ha la tua passione per la cucina con quella per la scienza?[/quote_box_left]
«È inevitabile per me ormai avere un approccio scientifico quando cucino: mi pongo continuamente domande su quello che succede nella padella e ipotizzo future variazioni di una determinata ricetta. È soprattutto una questione di metodo, mi domando sempre il perché una ricetta dica di fare determinate operazioni e non altre e non mi accontento del “si è sempre fatto così”. Vicino al fornello tengo un taccuino su cui annoto le ricette che preparo e le modifiche che mi vengono in mente da apportare. In questo modo dopo un po’ la ricetta arriva a convergenza».

[quote_box_left]Qual è il tuo piatto preferito?[/quote_box_left]
«Adoro mangiare una bella bisteccona cotta come si deve alla temperatura giusta internamente e bella rosolata fuori. Se parliamo di primi piatti sono un divoratore di risotti di tutti i tipi. Quando li cucino uso spesso il vialone nano, una delle mie varietà di riso preferite (e ai tradizionalisti adoro spiegare che il Carnaroli non è per nulla “tradizionale” avendo meno di un secolo 😉 ).

[quote_box_left]Devi decidere tra una cena in una trattoria vecchio stile e un ristorante di cucina molecolare. Dove vai?[/quote_box_left]
«Dove si mangia meglio, probabilmente in una trattoria. Il termine “Cucina molecolare” non significa nulla, è una invenzione giornalistica. Sarebbe come connotare un ristorante perché usa il forno a microonde e non per quello che prepara. Ti assicuro che ho assaggiato ottimi piatti con ingredienti tradizionali preparati con tecniche “moderne” (non mi piace il termine “molecolare”) e se non sei un esperto, o un cuoco, non capisci che sono state usate quelle tecniche “bollate” come “molecolari”. Se un ristorante si connota esplicitamente come “molecolare” probabilmente è per stupire. Non mi interessano gli effetti speciali fini a se stessi, che siano molecolari o meno».

[quote_box_left]Quando vai a fare la spesa tu sai analizzare le etichette, ma cosa consigli a un profano di chimica? Cosa deve guardare?[/quote_box_left]
«In realtà non è che passo tutto il tempo a leggere le etichette, altrimenti ci metterei due ore a fare la spesa! Il consumatore prima di tutto non si deve far prendere dall’ansia di essere avvelenato e quindi eviti di spendere soldi inutili perché è convinto facendo così di tutelare la propria salute. Ad esempio se compri frutta e verdura biologica perché sei convinto che quella convenzionale sia “tossica” personalmente penso che stai buttando via i tuoi soldi. Se compri Bio perché ti piace di più (ma vorrei vederlo in una degustazione in cieco) allora non ho nulla da eccepire. Il consumatore poi deve evitare di credere che esistano cibi miracolosi. Ogni anno un nuovo alimento diventa di moda. Era il tè verde qualche anno fa, poi l’Aloe vera, ora è il turno della Quinoa, e poi chissà. E il marketing ovviamente se ne approfitta. Poi (e ne parlo a lungo nel libro) io sono sospettoso verso tutti quegli alimenti a cui è stato aggiunto un integratore: il selenio, il ferro, i polifenoli e così via. Siamo sicuri di averne bisogno? Forse nella nostra dieta ne assumiamo già in una quantità sufficiente. E poi, la quantità aggiunta in quei cibi è sufficiente per avere un effetto fisiologico?»

[quote_box_left]Qual è l’ABC del consumatore consapevole secondo te?[/quote_box_left]
«Saper leggere e interpretare correttamente le etichette, senza allarmarsi davanti ad un additivo che inizia per E seguito da un numero, cercando invece di capirne il suo significato. Ci sono persone che rifuggono dai conservanti, e si lamentano di trovarli nei prodotti confezionati. Che comprino cibi freschi allora! Un conservante ha lo scopo, appunto, di conservare l’alimento nel tempo e di preservarlo evitando che possa deteriorarsi e causarci delle infezioni. Non ha senso pretendere di comprare cibi confezionati che devono durare nel tempo e lamentarsi per la presenza di conservanti. A volte il consumatore è irragionevole: chiede una marmellata “dietetica senza zucchero”, che è una contraddizione in termini, visto che senza zuccheri (e calorie annesse) non la puoi proprio fare una marmellata. E quindi cadono preda del marketing che vende le marmellate “senza zuccheri aggiunti” ma con succo d’uva o succo di mela concentrato, che significa glucosio e fruttosio ovviamente: zuccheri».

 

[quote_box_left]Se ti dico chimica vs natura tu cosa rispondi?[/quote_box_left]
«Contrapposizione priva di senso. La natura è un laboratorio chimico sopraffino che produce veleni potentissimi e sostanze benefiche. E ovviamente una molecola sintetizzata in laboratorio è assolutamente identica a quella sintetizzata in un processo biochimico in natura, anche se spesso alcune persone si stupiscono di questo. Si deve ragionare sulle proprietà delle varie sostanze indipendentemente da chi le ha prodotte, tenendo conto che la visione della “natura benigna” è falsa e frutto di una visione da Walt Disney della natura».

[quote_box_left]Se ti dico uso della chimica vs metodi naturali?[/quote_box_left]
«Non esistono “metodi naturali”, a meno di essere un crudista. Tutte le tecniche di conservazione, preparazione e cottura sviluppate nei millenni sfruttano, a volte in modo molto sofisticato, processi chimici e fisici. Ci sembrano “naturali” solo perché si usano da molto tempo. Vedo persone diffidare della pectina (che permette di cuocere poco la frutta per fare confetture ancora aromatiche, specialmente con frutta molto delicata come mirtilli e lamponi) e insistere nel cuocere per quasi un’ora la povera frutta, che assumerà un sapore indistinto e caramellato. Oppure aggiungere la mela che, per carità, contiene pectina, ma mi altera anche sapore e consistenza. E tutto perché si ha paura della chimica. Ma sono consapevole che ci vuole tempo per far accettare certe cose dalle persone. Ora il glucosio, per fare un esempio, è un ingrediente normale in pasticceria e gelateria, e si comincia a usare anche a casa. Quando è stato introdotto commercialmente (fine ‘800 inizi ‘900) c’era molta diffidenza verso questo prodotto “industriale”. Ora non più. Succederà così anche per altri ingredienti “chimici”. Basta aspettare».

[quote_box_left]Per te qual è il significato di “buono”?[/quote_box_left]
«Credo che sia uno di quei concetti difficili da definire precisamente a parole, ma che diventa immediatamente chiaro quando assaggi qualche cosa che ti piace veramente. E decidiamo “mi piace” sia in base agli stimoli sensoriali e gustativi sia per influenza culturale, quindi è impossibile dare una definizione di cosa sia buono e cosa no, anche se spesso i gourmet pensano di poter distinguere in modo netto indipendentemente dalla cultura e dalle abitudini».

[quote_box_left]Secondo te una degustazione alla cieca di vini è simile a un esperimento scientifico in cieco?[/quote_box_left]
«Non troppo. Una degustazione di vini solitamente non è strutturata come un esperimento, da quello che ne so. Ad esempio non viene mai riproposto lo stesso vino più volte, fingendolo un vino diverso, allo scopo di capire se effettivamente gli assaggiatori sono in grado di identificarlo. In più gli assaggiatori hanno comunque un’idea dei vini che verranno serviti: è difficile che gli servano un Tavernello a loro insaputa. Manca poi un’elaborazione statistica adeguata. La differenza principale però è che un esperimento in cieco è strutturato per rispondere ad una domanda ben precisa, ad esempio se un farmaco è più efficace di un placebo. In una degustazione di vino normalmente non funziona così. Ovviamente è possibile organizzare degustazioni in modo da rispondere a domande particolari: ho descritto alcuni di questi esperimenti nel mio libro Le bugie nel carrello.  Dicono poco sul vino ma molto sulle degustazioni in sé, sugli assaggiatori, sugli esperti e sulle classifiche».

[quote_box_left]Nei tuoi libri emerge prepotente una rivolta contro certi atteggiamenti del marketing che mandano messaggi scorretti. Ti viene in mente qualche esempio di comunicazione virtuosa?[/quote_box_left]
«Virtuosa non so, ma è certo che non tutte le aziende o gli operatori si comportano nella stessa maniera. Alcune più di altre sfruttano in modo subdolo le paure dei consumatori. Pensate a tutte quelle etichette che vantano di non contenere questo o quell’ingrediente: “senza grassi idrogenati”, benissimo, i grassi idrogenati sono da evitare. Ma perché non mi dici invece che grassi hai usato per fare quei biscotti? Se leggo l’etichetta e scopro che usi l’olio di palma, allora preferisco senza dubbio i frollini fatti con il burro!».

[quote_box_left]Qual è secondo te il valore della divulgazione scientifica in ambito enogastronomico?[/quote_box_left]
«In Italia siamo a livelli molto bassi di accettazione. La scienza viene ancora vista come “nemica” della tradizione e non come un qualche cosa che può arricchire. All’estero è diverso e ad Harvard tengono delle lezioni aperte al pubblico sulla “scienza della cucina” invitando scienziati e Chef del calibro di Ferran Adrià. Qui da noi se osi dire che la bistecca andrebbe salata molti minuti prima di cuocerla ti guardano male, anche se gli dai la spiegazione scientifica. Ti rispondono che “mi hanno sempre detto che si prosciuga dei succhi, che ne sai tu che non sei uno Chef?”.
Io stesso sono visto spesso come un corpo estraneo al mondo enogastronomico “di contorno” (non parlo dei cuochi o dei professionisti), una specie di grillo parlante, tanto è vero che raramente vengo invitato a incontri ed eventi del mondo food o raduni di foodblogers (il che, sia chiaro, mi sta benissimo, anche perché non ho molto tempo per andare in giro, e così mi evito anche di dover rispondere all’azienda X che non mi interessa pubblicare un articolo sulla farina tal dei tali o sullo sciroppo XYZ anche se mi mandassero dei campioni gratuiti e una fornitura annuale). A volte mi è anche capitato di essere invitato (con mia somma sorpresa) ad un incontro di vignaioli a parlare di futuro degli OGM in ambito vinicolo, ma poi qualcuno si è lamentato della mia presenza e mi hanno “disinvitato”.
Devo dire che nella mia piccola esperienza il mondo “eno” è molto più talebano di quello “food”. Vedo molto interesse invece per la divulgazione da parte dei professionisti del mestiere, specialmente quelli di fascia alta. E ti confesso che quando Cristina Bowerman mi ha chiesto di darle una mano per mettere a punto un purè da usare nel suo piatto a base di cuore di vitella mi sono sentito onorato. Se andate a mangiare da lei e lo assaggiate sappiate che c’è anche un mio piccolo contributo in quel piatto. E come lei ho conosciuto tanti altri Chef, come Massimo Bottura o Andrea Berton, che apprezzano il valore della scienza in cucina e non si sentono “minacciati” in alcun modo, anzi la vedono come una opportunità. Giustamente».

[quote_box_left]Consigliaci un esperimento facile facile da proporre in famiglia.[/quote_box_left]
«Adoro fare i cristalli in casa. Quelli di sale da cucina non vengono molto grossi ma in compenso sono veloci e facilissimi da fare».

[quote_box_left]A guardare alcuni fenomeni contemporanei (Stamina è l’ultimo) si direbbe che il metodo scientifico e un certo tipo di approccio “laico” non goda di buona reputazione nella società di oggi. Non solo nel mondo food, come tu ben spieghi nei tuoi libri, ma in settori diversi, persino la politica. Prima di tutto ti chiedo se sei d’accordo con questa sensazione, e poi a cosa si deve secondo te questa – diciamo così – deriva?[/quote_box_left]
«Sì, concordo. Questo approccio non gode di buona reputazione e in Italia non l’ha mai goduta a dire il vero, ma ora è peggio. Uno dei motivi è sicuramente la caduta di fiducia nei confronti della scienza e degli scienziati, che invece decenni fa venivano esaltati, anche in modo acritico. Tuttavia quando da una parte ci sono le emozioni (i bambini ammalati, le affascinanti storie di Petrini dei “bei tempi andati”, le mani callose di un vecchio vignaiolo, il ragazzo autistico che secondo i suoi genitori è stato danneggiato da un vaccino, e così via) e dall’altra parte la razionalità, lo scienziato percepito come lontano dalla gente comune, numeri e grafici, dati e statistiche, beh, non c’è partita. La scienza perde 7 a zero. Ed è sicuramente colpa anche della comunicazione della scienza e degli scienziati, che troppo spesso non riescono a fare breccia nelle persone comuni. Gli scienziati dovrebbero imparare a comunicare meglio il loro lavoro e a non nascondere il lato umano della scienza. E soprattutto ad ascoltare e a rispondere alle domande delle persone comuni, senza snobismi e tecnicismi».

Autore

Daniele Miggino

Lavora sul web sotto diverse spoglie da svariati anni. Mezzo piemontese e mezzo lucano, è nato a Genova. Nella sua stirpe si trovano contadini e zii d’America, osti e viaggiatori. Sarà per questo che è uscito fuori così.

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