Avete mangiato ostriche questo Natale? Bene, perché potrebbero essere le ultime.
Il 2011 verrà infatti probabilmente ricordato come l’anno in cui sparirono le ostriche. Non è uno scherzo, è lo spettro concreto dell’estinzione per quanto riguarda la classica creuse francese, che già da quest’anno vedrà un crollo della produzione del 40, a volte 60%.
Cifre che disegnano un disastro: biologico, economico e gastronomico.
Ma come è potuto succedere? Come nei film, lo sterminatore è un invisibile virus, un herpes, battezzato OsHV-1.
Comparso nella primavera 2008, ha immediatamente fatto strage fra i naissan – le ostrichine appena nate – uccidendone a milioni e letteralmente azzerando intere annate: in alcuni bacini di allevamento questa specie di peste nera ha avuto un tasso di mortalità del 100%, e ovunque è stato superiore all’90%. La moria si è poi ripetuta nel 2009 e nel 2010, e al momento sembra che nulla impedisca che si ripeta anche nel 2011.
Se finora non ve ne eravate accorti, è perché le ostriche che arrivano in tavola hanno in media tre o quattro anni di età e quindi vi siete sbafati le generazioni precedenti all’armageddon.
Il mondo dell’ostricultura non è nuovo a queste apocalissi. La creuse, altrimenti detta giapponese (Crassostrea gigas) fu infatti introdotta negli anni ’70 dopo che una simile epidemia aveva portato all’estinzione la portoghese (Crassotrea angulata), a sua volta introdotta dopo la madre di tutte le stragi, quella che colpì le ostriche piatte nell’800 (Ostrea edulis).
Questa però è un’apocalisse moderna: oggi le ostriche viaggiano più del papa e l’infezione da OsHV-1 si è ormai trasformata in pandemia. Quasi nessuna delle zone produttive francesi ha infatti un rigido protocollo di allevamento, per cui le gabole sono all’ordine del giorno: un’ostrica nasce povera a Thau o più facilmente in Irlanda, e si trasforma in una sciccosissima Marennes d’Oleron dopo un rapido viaggio in camion e due o tre settimane di affinamento, con tanto di diploma e prezzo raddoppiato.
E quindi?
E quindi con la produzione letteralmente dimezzata si prospettano aumenti sconsiderati nell’immediato futuro. E’ la legge del mercato, baby: domanda e offerta, offerta e domanda. Sempre in Francia hanno calcolato in media un euro in più a ostrica, cifra che da noi non oso pensare quanto sarà gonfiata.
Per il domani, l’Ifremer ha cominciato dei test per introdurre una ennesima nuova specie non autoctona (giapponese, coreana e australiana), solo che rispetto a quarant’anni fa oggi la cosa non è tanto semplice, poiché ci sono regolamenti sulla biodiversità e occorre controllare che le specie esotiche non danneggino l’ecosistema locale.
Nel frattempo non ci resta che aprire il portafogli. O ridurre il quantitativo pro-capite di ostriche ingurgitate.
Potremmo anche rivolgere i nostri appetiti alle ostriche piatte, non colpite dal virus, se questa tipologia non fosse già cara di per sè (Belon) e non rappresentasse appena il 2% della produzione francese.
O sennò chiudiamo gli occhi e assaggiamo le ostriche cinesi – primo produttore mondiale. Magari scopriamo che il viaggetto di diecimila chilometri in aereo cargo frigorifero ne migliora il gusto…