2011, l’anno in cui sparirono le ostriche

da | Gen 10, 2011

Avete mangiato ostriche questo Natale? Bene, perché potrebbero essere le ultime.
Il 2011 verrà infatti probabilmente ricordato come l’anno in cui sparirono le ostriche. Non è uno scherzo, è lo spettro concreto dell’estinzione per quanto riguarda la classica creuse francese, che già da quest’anno vedrà un crollo della produzione del 40, a volte 60%.
Cifre che disegnano un disastro: biologico, economico e gastronomico.

Ma come è potuto succedere? Come nei film, lo sterminatore è un invisibile virus, un herpes, battezzato OsHV-1.

Comparso nella primavera 2008, ha immediatamente fatto strage fra i naissan le ostrichine appena nate – uccidendone a milioni e letteralmente azzerando intere annate: in alcuni bacini di allevamento questa specie di peste nera ha avuto un tasso di mortalità del 100%, e ovunque è stato superiore all’90%. La moria si è poi ripetuta nel 2009 e nel 2010, e al momento sembra che nulla impedisca che si ripeta anche nel 2011.
Se finora non ve ne eravate accorti, è perché le ostriche che arrivano in tavola hanno in media tre o quattro anni di età e quindi vi siete sbafati le generazioni precedenti all’armageddon.

Il mondo dell’ostricultura non è nuovo a queste apocalissi. La creuse, altrimenti detta giapponese (Crassostrea gigas) fu infatti introdotta negli anni ’70 dopo che una simile epidemia aveva portato all’estinzione la portoghese (Crassotrea angulata), a sua volta introdotta dopo la madre di tutte le stragi, quella che colpì le ostriche piatte nell’800 (Ostrea edulis).
Questa però è un’apocalisse moderna: oggi le ostriche viaggiano più del papa e l’infezione da OsHV-1 si è ormai trasformata in pandemia. Quasi nessuna delle zone produttive francesi ha infatti un rigido protocollo di allevamento, per cui le gabole sono all’ordine del giorno: un’ostrica nasce povera a Thau o più facilmente in Irlanda, e si trasforma in una sciccosissima Marennes d’Oleron dopo un rapido viaggio in camion e due o tre settimane di affinamento, con tanto di diploma e prezzo raddoppiato.

E quindi?
E quindi con la produzione letteralmente dimezzata si prospettano aumenti sconsiderati nell’immediato futuro. E’ la legge del mercato, baby: domanda e offerta, offerta e domanda. Sempre in Francia hanno calcolato in media un euro in più a ostrica, cifra che da noi non oso pensare quanto sarà gonfiata.

Per il domani, l’Ifremer ha cominciato dei test per introdurre una ennesima nuova specie non autoctona (giapponese, coreana e australiana), solo che rispetto a quarant’anni fa oggi la cosa non è tanto semplice, poiché ci sono regolamenti sulla biodiversità e occorre controllare che le specie esotiche non danneggino l’ecosistema locale.

Nel frattempo non ci resta che aprire il portafogli. O ridurre il quantitativo pro-capite di ostriche ingurgitate.
Potremmo anche rivolgere i nostri appetiti alle ostriche piatte, non colpite dal virus, se questa tipologia non fosse già cara di per sè (Belon) e non rappresentasse appena il 2% della produzione francese.

O sennò chiudiamo gli occhi e assaggiamo le ostriche cinesi – primo produttore mondiale. Magari scopriamo che il viaggetto di diecimila chilometri in aereo cargo frigorifero ne migliora il gusto…

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

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