Lo Champagne di Gheddafi Jr

da | Ago 30, 2011

Mentre guardo le immagini della tragedia che si sta svolgendo per le strade di Tripoli, città che conosco molto bene per averci vissuto cinque anni, mi rendo conto di avere sotto gli occhi la risposta a una domanda che in tempi non sospetti ci si poneva costantemente.
Che sarà dopo Gheddafi? Cosa succederà?

Cosa lo sostituirà dobbiamo ancora capirlo.  Nel frattempo le ultime notizie lo danno un po’ ovunque: nascosto in una buca, in qualche paese sparso nel paese, in un bunker.

Cosa sopravviverà al suo regime, invece, lo abbiamo già capito, se è vero che mentre i bombardamenti NATO non sono ancora finiti, già partono i primi accordi con il Consiglio nazionale transitorio per capire che farsene del petrolio e del gas – protagonisti  occulti di questo dramma – ormai liberati dalla tirannia e pronto per finire nelle mani del più veloce.

In questo tourbillon, mi ha fatto sorridere la notizia che i ribelli, dopo aver rubato la 500 modificata del Rais, sono entrati nella villa di uno dei figli di Gheddafi – Saif El Islam –  si son messi a suonare il piano e hanno pure trovato casse di whisky e confezioni di MoëtChandon. Una notizia sparata, come è giusto che sia secondo le regole del giornalismo d’effetto, per dire che in un paese musulmano come la Libia, dove il commercio e l’assunzione di alcol è proibito, i capi bevevano bollicine, sulla terrazza a due passi dal mare, alla faccia del Corano e di tutto il resto.
Io abitavo a due passi da lì.

Non mi ha stupito la quella notizia. Anzi. Come in tutti i paesi in cui vige qualche forma di proibizionismo, anche in Libia si trovava il modo di aggirare la proibizione, dando adito a un’ipocrisia tipica di questi divieti.

Non lo faceva solo il figlio del capo.

La mia prima vera sbronza l’ho presa proprio lì vicino alle foto pubblicate dai media, ancora pivello, da un canadese che aveva allestito una vera e propria brewery casalinga. Ma c’era anche chi comprava l’uva, prodotta in quantità vicino alle coste libiche, e poi simulava le condizioni di una cantina sparando aria condizionata a paletta. Così si faceva il suo vino.

Per non parlare del commercio sotterraneo, costituito da distillati prodotti non voglio sapere come – altro che biodinamico! – e dai nomi inequivocabili. Come il flash, un liquido trasparente e letale. Veniva spacciato per pochi dinari attraverso un buco in un muro, in buste di plastica trasparente, quelle da pesci rossi tanto per capirsi. Il flash era tutti gli effetti un veleno da far diventare ciechi. Sapore indescrivibile, diluizione in bevanda – aranciata o coca cola che fosse – obbligatoria.

Le leggende sul tema alcol si sprecavano. Si narrava di cene a base di whisky e casse di birra Heineken comprate a peso d’oro al mercato nero. Di incidenti provocati in stato d’ebbrezza ed espulsioni immediate. C’era chi poteva e chi no, c’era voleva e chi no. Non era per tutti. Uno dei tanti aspetti della vita in un paese in cui il capo si chiama Lui per non nominarlo neppure.

Oggi di fronte alla realtà che risponde ai nostri interrogativi di allora, riaffiorano i ricordi, i pensieri si ammucchiano.  Riesco solo a racimolare immagini e frammenti di vita, sensazioni recuperate nella memoria. Mi vergogno un po’ a scrivere un aneddoto personale in un momento così tragico. Sarà per quella veranda vicino alla spiaggia che vidi per tanti giorni, sarà perché bevevo flash invece che champagne.

Autore

Daniele Miggino

Lavora sul web sotto diverse spoglie da svariati anni. Mezzo piemontese e mezzo lucano, è nato a Genova. Nella sua stirpe si trovano contadini e zii d’America, osti e viaggiatori. Sarà per questo che è uscito fuori così.

Leggi gli articoli correlati

Articoli correlati