Benvenuti nella giungla (delle denominazioni)

da | Apr 15, 2011

Oggi più che mai l’Europa ci appare come un organismo alieno, ben lontano da quella frontiera di libertà e benessere che era apparsa ai Padri fondatori. Nelle piccole cose però l’Europa c’è, anche se non ce ne accorgiamo. Basta prendere un qualsiasi formaggio sul banco frigo e, se disposti a scegliere una denominazione, ecco spuntare le benamate stelline su sfondo blu. La confusione è grande, almeno per il consumatore dilettante, e il logo sempre un po’ troppo piccolo. Vediamo cosa esce fuori da un piccolo viaggio tra i marchi.

Partiamo dalla DOP acronimo che sta per denominazione di origine protetta: è garantito direttamente dalla UE e promette che produzione, trasformazione, elaborazione e quant’altro siano fatte in un determinato luogo. Pregi: garantisce una qualità e un’origine anche nel buco più sperduto della penisola iberica o della Foresta nera. Difetti: il disciplinare troppo rigido spesso può diventare un ostacolo alle piccole realtà e spingere all’uniformità.
L’IGP, indicazione geografica protetta, garantisce l’origine territoriale almeno per un passaggio della produzione ed è concesso direttamente dalla Ue. Tra i vantaggi c’è anche qui la garanzia di qualità, tra gli svantaggi l’estrema ampiezza delle sue maglie spesso non fautrici di un’origine certa.
Arriviamo alla STG che qualche anno fa godette di un insolito successo grazie alla pizza napoletana. Significa specialità tradizionale garantita, è ottima per fissare almeno idealmente la ricetta di un piatto spesso di grande consumo, salvandone l’origine storica, però spesso non garantisce sull’origine degli ingredienti.

Scendendo nel territorio nazionale troviamo poi i famosi PAT, prodotti agroalimentari tradizionali, che sono conferiti a livello nazionale e custoditi gelosamente su base regionale. Garantiscono origine e tradizione di un prodotto e, importantissimo, di una ricetta. Difetti: spesso non sappiamo neppure che esistano.
Non bisogna poi dimenticare lo squisito marchio BIO che certifica l’agricoltura biologica (con una simpatica fogliolina di stelle su campo verde, un tempo spiga su campo blu) e garantisce sui processi di lavorazione e sugli ingredienti di un determinato prodotto. Manca però il requisito della tradizionalità.

Infine arrivo a una denominazione che ultimamente sta facendo furore: la De.Co. acronimo di denominazione comunale. E’ conferita dall’amministrazione comunale, garantisce in maniera capillare l’origine di un prodotto, spesso frutto di una comunità minuscola. Non tutela i produttori (a meno che non scelgano altre strade successive come il marchio collettivo) e per sua struttura non può intervenire sulla qualità. Ha tra i suoi pregi la straordinaria capillarità e l’attenzione al lato culturale; pecca nella riconoscibilità, nella tutela e se non regolamentata rischia una deriva anarchica. Me ne occupo da anni, se volete approfondire www.denominazionicomunali.it oppure il libro De.Co. la carta d’identità del sindaco scritto dal sottoscritto con Paolo Massobrio e Paola Gula.
All’appello mancano poi i marchi privati e quelli collettivi.

Volendo possiamo aumentare l’ebbrezza con le denominazioni nel mondo del vino: allora via con la DOCG: è la Ferrari delle denominazioni, sta per denominazione di origine controllata e garantita, prevede disciplinari, regole e zone di produzione strettissimi; poi la DOC, con disciplinare piuttosto rigido e zone d’interesse leggermente più ampie. Infine l’IGT , con una indicazione geografica piuttosto ampia e disciplinari con maggiori concessioni. Non dimentichiamoci il vino da tavola che nonostante il nome non sia altisonante spesso accoglie vini di grande valore che per la loro natura non riescono a rientrare in nessun disciplinare.
Peccato che mentre stiamo scrivendo le norme siano già sulla strada del cambiamento e le denominazione inerenti ai vini si stiano avviando all’estinzione per diventare anche loro Dop (nella foto, esempio di vino italiano etichettato come DOP) e Igp con tutti i problemi connessi all’adeguarsi alla nuova disposizione europea.

Intanto da più parti mi arrivano le voci di chi condanna le denominazione europee perché con i loro disciplinari rigidi rischiano di far scomparire le piccolissime produzioni o almeno omologarle in un modello che non tiene conto della storicità (quanto è grande una valle rispetto all’Europa? Nulla; quante differenze produttive possono esserci da una valle all’altra? Popoli, colture, culture e condizioni climatiche e morfologiche diverse possono fare differenze enormi). La partita è aperta e sinceramente non so più per chi fare il tifo.

Autore

Fabio Molinari

L’unica persona sera in questa gabbia di matti. È un po’ che non scrive su Papille, ma ci ha lasciato bellissimi pezzi su vini, posti in giro per l’Italia e cazzabubole

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