Il Grappaiolo Angelico

da | Apr 30, 2010

Se n’è andato due anni fa, nel giorno della festa dei lavoratori, lui che i giorni di festa scansava come le mosche. Romano Levi, da Neive, il Grappaiolo Angelico. Il sabato prima della sua morte, come facevo spesso, tutte le volte che andavo a trovare i miei, a Castagnole Lanze, gli ho consegnato una copia della rivista, con il mio articolo su di lui. Era il mio primo pezzo su una rivista di enogastronomia, scritto due o tre mesi prima, finalmente pubblicato.
Il sabato successivo (era il 3 maggio) ho parcheggiato l’auto nel solito posto, superata la distilleria, in uno spiazzo all’incrocio della strada che va verso Mango. Una giornata di sole splendido, come solo le giornate di maggio sanno essere. Quel caldo già caldo che arriva fino al cuore, senza soffocarlo però. Il cancello rosso, a quell’ora solitamente aperto, era chiuso, con sopra il manifesto funebre. Non so quanto tempo sono rimasto fermo nel punto da cui l’ho visto. Forse solo qualche decina di secondi, forse un paio di minuti. Non so se il mio articolo gli sia piaciuto, se in quella settimana ha trovato il tempo di leggerlo. Lo riporto qui sotto.

La distilleria di Romano Levi è una casa contadina, lunga, su due piani, nel cuore del Borgonuovo di Neive. Siamo in provincia di Cuneo, nelle Langhe, a due passi da Barbaresco e a pochi chilometri da Alba. Terra di colline, nobile vino, tartufi, nocciole tonde gentili.
Varcare il rosso cancello della distilleria è sempre un’emozione particolare, perché all’interno, nel cortile pacifico, ricco di gatti e con una fontanella nel mezzo, si respira un’aria diversa, e non per i fumi dell’alcool. L’atmosfera sa di storie antiche, di tradizioni e conoscenze contadine, ma anche di grande generosità. Quella che Levi, classe 1928, da sessantatre anni profonde per produrre la sua inimitabile grappa. Sessantatre come i fiammiferi che il “Grappaiolo angelico”, come lo ha definito Luigi Veronelli, suo amico fraterno, ha utilizzato per accendere, una volta all’anno, il grande fuoco alimentato dalle vinacce essiccate della stagione precedente.

Levi è l’ultimo e unico distillatore a fuoco diretto del mondo. Questo significa che la caldaia in cui si mette l’acqua per fare bollire le vinacce  e catturarne il vapore alcolico è a contatto diretto con le fiamme. Ci vuole grande esperienza e conoscenza, per acchiappare dalla distillazione solo il cuore del prodotto, che è la parte centrale, quella pulita, netta e armonica, eliminando la testa, ovvero la prima parte di distillazione, carica di alcool metilico e la coda, pregna di oli essenziali sgradevoli al palato. Il risultato è una grappa secca, priva di profumi fruttati e retrogusto dolciastro, alcolica (supera i cinquanta gradi), rustica, che si compiace del calore della bocca e sprigiona la sua possenza nella gola.


Ogni giorno dell’anno, tranne le feste comandate, il cortile di casa Levi (la sua abitazione è proprio sopra le stanze dove imbottiglia ed etichetta) accoglie persone provenienti da tutto il mondo, in cerca di una bottiglia preziosa. Perché Levi è famoso ovunque, in Europa come negli Stati Uniti o in Giappone. Dal 1971, quando Veronelli lo fece scoprire al mondo con un articolo per il settimanale Epoca dal titolo “L’aristocrazia delle acquaviti”. Levi è famoso per la sua grappa, ma anche per le etichette. Disegnate a mano, una ad una, dal 1961, con inchiostri di china e pennino.
Da questo piccolo cortile nel borgo di Neive sono passati personaggi celebri, artisti, gastronomi, scrittori, industriali. Per molti il ritorno a casa è stato accompagnato da una bottiglia incartata in un foglio di giornale del Sole 24 ore. Ad altri, invece, non è toccata nessuna bottiglia, perché la produzione è sempre stata limitata. Tra questi, narra una storia che può essere vera, Luciano Pavarotti, giunto troppo tardi davanti al cancello un pomeriggio di qualche anno fa.
“Scelgo le pagine del Sole 24 ore perché la carta è buona, non lascia inchiostro e ha un bel colore. E poi è un giornale ricco di articoli interessanti, e ha soprattutto le migliori previsioni del tempo!” spiega sorridendo Romano Levi.
Nella scorsa primavera il museo di Palazzo Bricherasio, a Torino, gli ha dedicato una mostra che ha ripercorso le storie e i sogni racchiusi nelle sue etichette: storie di passioni, incontri, espressioni d’umore; sogni germogliati dalla terra di Langa che delimita con uno scenario di colline il mondo magico di Romano. I critici d’arte lo hanno catalogato tra gli esponenti dell’Art Brut: arte istintiva, semplice ed emotiva, dalla grande originalità e fantasia.
Il soggetto più famoso, e ricercato dai tanti collezionisti, è la “donna selvatica”: una stilizzata figura femminile dai capelli scarmigliati, lunga e snella, che s’invola per le colline a scompaginare le stagioni.


La donna selvatica, nella sua lunga vita sulle etichette, è diventata decorosa, indecorosa, ascendente, percuziente, preconizzante. La donna selvatica è uno straordinario omaggio che Levi ha fatto alle donne, ma rappresenta anche l’anima più profonda e intima della grappa.
“Per arrivare alla scuola elementare andavo a piedi lungo le colline,  nel sentiero in mezzo ai filari. I contadini avevano tra le vigne piccoli rifugi, i ciabot, dove ripararsi nel caso di temporale o se la mattina c’era da stare in vigna prima di sole- racconta Romano Levi-  Quando ci passavamo davanti, ogni tanto si apriva la porta e usciva una donna, anche giovane ma già con gli abiti lunghi che si usavano una volta: donne belle e scarmigliate, un po’ pazze, un po’ streghe e un po’ fate. Erano libere come dovrebbero essere tutte le donne per vivere la parte migliore della vita. Le chiamavamo donne selvatiche, ci facevano paura…facevamo finta di avere paura…correvamo via per scherzare”.
Al fianco di Romano, da sempre, c’è sua sorella, Lidia, grande conoscitrice di erbe, che un tempo venivano lasciate a macerare nella grappa, e un fido gruppo di collaboratori, gli “ignari”, come li definisce lo stesso Levi. Mauro, Fabrizio, Bruno e Franco, da ottobre a marzo seguono direttamente la lunga stagione della distillazione (segnalata da una bandiera del Giappone appesa nel cortile, originale orma di distinzione)  e negli altri mesi accolgono la gente sulla soglia di casa, con un bicchiere di grappa sempre pronto a scaldare la bocca e rinvigorire lo spirito.
“Una buona vinaccia, un buon alambicco e un buon fuoco: ecco i semplici segreti per la grappa. Soprattutto la vinaccia: deve essere intatta e poco torchiata. Quando aiutavo a scaricare le ceste delle vinacce portate dai contadini sentivo subito con la mano se andavano bene o no. Già aprendo la porta della cantina sapevo dire dall’odore se erano intatte. Quelle non buone le pagavo e le mettevo in disparte. Poi, quando il contadino se ne andava, le buttavamo nei campi. Venivano dalla campagna, con un carretto trainato dal bue, facevano un’ora di viaggio solo per poche ceste di vinacce. Potevo dire loro che non andavamo bene? Non me la sentivo”.
Le grappe di Levi si possono trovare nelle migliori enoteche, nei negozi più raffinati e  raggiungono prezzi altissimi, ben superiori ai cento euro. Lui però le vende a 30 euro alla bottiglia, ma la produzione è limitata a non più di una decina di  bottiglie al giorno.
“C’è gente che mi ha chiesto una bottiglia per festeggiare la nascita di un figlio e ancora è in attesa anche se ormai il figlio ha raggiunto la maggiore età. Per me la grappa deve essere un prodotto che tutti si possono permettere. Per questo la metto a  poco prezzo. Magari il ricco la può bere ogni giorno, ma anche chi è povero ha l’occasione di assaggiarla nei giorni di festa”.
Ogni visita alla distilleria di Romano Levi diventa l’occasione per assaggiare un bicchiere di grappa ed ascoltare storie d’incontri, aneddotti, ricordi della campagna. Momenti di filosofia spicciola, legata alla vita di ogni giorno, alle situazioni che quotidianamente fanno soffrire e gioire gli esseri umani.
“Prima di mettere l’etichetta guardavo due volte la bottiglia, per controllare che non ci fosse finito nulla dentro. A volte poteva scivolare nell’imbuto un moschino, allora mettevo da parte la bottiglia, aspettando di averne cinque o sei per filtrarle. Un giorno arrivano dei tedeschi che volevano la grappa bianca, ma l’avevo terminata. Loro mi dicono “Lì ce n’è!”  “Ma quelle hanno il moschino”, rispondo. “Non fa niente, le prendiamo lo stesso”. Allora ho scritto “Grappa con moschino, suo papà Mario Onorato, sua mamma Maria Onorina” e ho disegnato un moschino qualunque, tanto per fare capire che l’avevo visto. La visita successiva mi chiedono ancora la grappa col moschino. Ma non avevo bottiglie da parte. Allora ho fatto la “Grappa col moschino invisibile: c’è ma non si vede”.
Romano Levi è questo. “Io voglio lavorare, voglio cambiare vita, voglio essere un altro. Voglio dare il buon esempio, voglio zappare le colline al rosso del sole, voglio fare i sacrifici, voglio farmi un nome, io voglio acchiappare “bene”. Grappa dell’uomo che si vergognò”. E’ uno dei testi che ha scritto su un’etichetta. Difficile trovare definizione migliore per questo artigiano delle vinacce,  poeta della grappa.

Autore

Alessandro Ricci

Sotto i 40 (anni), sopra i 90 (kg), 3 figlie da scarrozzare. Si occupa di enogastronomia su carta e web. Genoano all’anagrafe, nel sangue scorrono 7/10 di Liguria, 2/10 di Piemonte e 1/10 di Toscana. Ha nella barbera il suo vino prediletto e come ultima bevuta della vita un Hemingway da Bolla.

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